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domenica 26 aprile 2020

Grandi viaggi di malavoglia


La tarda premessa, 1982 – l’Italia vista dagli altri, dagli inglesi – è il capitolo più “praziano” della raccolta, pieno di umori: una stroncatura del Grand Tour, delle memorie del Grand Tour, le magnificazioni del pittoresco. Benché anche lui poi vi ecceda, in questa raccolta di corrispondenze che va dal 1950 al 1974, in Scozia, fra Turner, Lorenese, Poussin, o in Egitto, o a Isfahan, a Shiraz. Di più: lo “scettico canzonatore del pittoresco”, come si vuole, smantella le memorie di viaggio, nel mentre che ne propone una corposa silloge – uno dei suoi quattro o cinque libri di viaggi: “Penisola pentagonale”, la Spagna, “Viaggio in Grecia”, “Viaggi in Occidente”, “Bellezza e bizzarria”, “I volti del tempo”. E i viaggi stessi, da viaggiatore compulsivo.
Il primo pezzo della raccolta mette il lettore in guardia per fatto personale: “Se doveste farvi la fama di uomo noioso, di bore, non sareste molto più felice in Inghilterra di quel che sareste nel Sud dell’Europa con la riputazione di iettatore”. Poi si viaggia di delusione in delusione, in Brasile, in Messico, in Egitto, negli Stati Uniti, in Siria, tra Palmyra e Damasco, in Australia, in Iran, in Russia, nella stessa Polonia di cui pure ammira le corti brillanti sel Sei-Settecento. Eccetto che in Scozia, in parte. E a Parigi sempre, prima del restauro - città dell’Ottocento, di “decrepitezza o persistenza ambientale” – e dopo, quando si vedono un po’ di colori: Parigi è la città più grande, più s’intende di New York, “il grandioso non è misurabile, è una qualità”. Nei paesi di antica civiltà, Egitto, Siria, Messico, Iran il buono trovando guasto dalla contemporaneità, che è squallore, sporcizia, insensibilità. Eccetto che per alcuni momenti, tramonti, albe. Commosso solo a Sabratha e a Leptis Magna, solo tra le rovine solitarie, di un tempo che non ha avuto seguito. Scrupoloso, anche pignolo. Ma a disagio: fuori dal tempo, dalla storia, se non aneddotica,  dagli eventi. Dappertutto ci sono troppe case nuove, tutte brutte. E le automobili - il Sud della Francia non è più nel 1961 quello che era nel 1928: ci sono le automobili.
Con qualche pointe, qualche lampo, nel misoneismo di fondo. Negli Stati Uniti - che visita col contrappunto di Emilio Cecchi, ma non, benché lettore onnivoro, di Soldati o di Borgese - individua un “senso di solitudine dell’europeo in America”. A Boston per esempio, benché invitato da Harvard: la storia – ma è la tradizione, che non nomina: nomina spezzo Zolla, ma non la tradizione -solo emerge a Little Italy. E sa il significato dello stile classicheggiante delle grandi costruzioni, pubbliche e private, dell’Ottocento, quando il nuovo Stato fece i nuovi soldi: “Nella vita civile l’eredità architettonica del mondo classico rappresentava quel che la Bibbia era nella vita religiosa: i coloni avevano portato seco dall’Occidente solo queste due cose essenziali”.
Dagli stessi Stati Uniti, su una considerazione malinconica sul Sud sconfitto nella guerra civile, impianta in poche righe il revisionismo unitario. Nell’unica notazione politica, di storia politica, di tutta la raccolta, al § “Diecimila Borboni”, la recensione dell’ultima fatica di Harold Acton, “The last Bourbons of Naples”. L’attacco sembra bislacco, ma per mirare al punto: “Come nel Seicento si trovava una misteriosa analogia tra la fauna e la flora marine e quelle della terra, così potrebbe trovarsi tra la guerra di Secessione americana e la conquista del Sud dell’Italia da parte del Nord che va sotto il nome di Spedizione dei Mille”. Segue un’esposizione di tutti i meriti dei Borboni di Napoli raccontati da Acton. Con un sola riserva: “L’Acton ha scritto non tanto per rivendicare i meriti dei Borboni, quanto perché ama Napoli”. Salvo condividere Acton: “I Borboni si sono identificati con Napoli più intimamente che qualsiasi altra dinastia reale”. E rivelare che “i Borboni devono certamente possedere un fascino”, poiché anche in Francia se ne fa un culto – e descrive lungamente un museo privato loro dedicato a Bordeaux.
Niente sorprese con questo viaggiatore. Il viaggiatore vero in effetti va senza bagaglio, Praz è l’esatto opposto, troppo bagaglio: quasi sempre non trova quello che ci dovrebbe essere. Ma, come tutto in lui, si legge anche qui  per come scrive, sa vivificare le cose più banali, anonime, avulse. Anche se si interessa solo agli oggetti: monumenti, architetture, pitture, sculture, e ninnoli - non un solo personaggio in risalto, giusto la satira della donna sovietica. Anche se viaggia, in effetti, di malavoglia. Empatico a sprazzi, per riflesso involontario: la bellezza arcana dei visi dei bambini iraniani, non ancora ingolfati nel velo nero o deturpati dal duro mestiere di vivere – che spiega l’ultimo cinema iraniano. O per il ricordo dei primi viaggi, iaggi, da ragazzo. A Monaco di Baviera, in Scozia. O, a Malta, per i ritrovamenti del paleolitico, di animali del Nord, cervi, orsi, con animali del Sud, rinoceronti, elefanti, che fanno pensare al Mediterraneo propriamente detto, dallo Ionio al Bosforo, come un lago. Riacquista così a Malta anche il Witz: le chiese barocche trova affiancate da due campanili “in gesto apotropaico”, dell’indice e il mignolo puntati. E le trova affiancate nella grande chiesa, come a San Giovanni a Roma: “Che significato ha un luogo come quest’isola, dove si dan convegno le ossa di due continenti, e le ossa dei cavalieri d’ogni nazione cristiana?”.
Scopre la Germania, che pure ha visitato nel suo primo viaggio all’estero, 1921, come nuova, e quasi con meraviglia, malgrado le automobili e le costruzioni: “Se mai architettura fu vicina alla natura, questa fu la gotica”. Ma anche il rococò, a Monaco e nelle piccole corti, lo emoziona. E più di suo gusto è la Germania fuori della Germania, a Strasburgo, a Colmar. Un’avventurosissima Trieste crea in quattro-cinque pagine. Un tributo delicato ricama alla Brianza, al Gernetto o alla  Buffalora, tra Monte Rosa e Resegone, che fa agire dai Polidori, Mellerio, Rovani, Castelbarco, Rosmini, Maggio – oggi è dei Berlusconi. Meglio viaggia a casa, in Toscana, nell’aretino, tra San Sepolcro, Monterchi, Montauto, la “singolare repubblica” di Cospaja. I piccoli aneddoti, i piccoli spazi, i piccoli oggetti - i grandi spazi lo mettono a disagio come ovunque, e il mobilio Ottocento. Da “toscano d’elezione”: anglista emerito (può permettersi di fare femminili il party e il gate), ma ancorato alla microrealtà, anche se non bozzettistico – Fucini non gli avrebbe fatto orrore? Ancora uno delle Giubbe Rosse, lo storico caffè fiotentino degli anni 1930, benché nessuno dei frequentatori d’elezione lo ricordi, il pettegolo Montale, Gadda, altro pettegolo, Landolfi, Rosai. Un sopravvissuto, della bella prosa.
Mario Praz, Il mondo che ho visto, Adelphi, pp.541 € 25

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