L’islam siamo noi, tristemente. Già nel 1955:
“L’islam che, nel Medio Oriente, fu l’inventore della tolleranza, perdona male
ai non mussulmani di non abiurare alla loro fede a vantaggio della sua, perché
essa ha su tutte le altre la superiorità schiacciante di rispettarle”. Una lettura
vertiginosa dei mondi altri finisce con un saggio, breve ma esauriente, su come
siamo: “Quando i cittadini del New England decisero un secolo fa di autorizzare
l’immigrazione dalle regioni più arretrate d’Europa e dagli strati sociali più diseredati, e di lasciarsi
sommergere da questa ondata, fecero e vinsero una scommessa la cui posta era
altrettanto grave di quella che noi ci rifiutiamo di mettere in gioco”.
Un libro di viaggi ancora nuovo, cioè
veritiero, dopo quasi settantanni. A dispetto di se stesso? Il futuro grande
antropologo alla prima frase dice: “Odio i viaggi e gli esploratori” . Tantissimo
tempo perduto, è la seconda. Per un libro di viaggi raccontati per quattrocento
densissime pagine. Non senza qualche ragione, soprattutto quella che “oggi”
(1954-55, quando il memoir fu
scritto), il viaggio è “fatto” prima della partenza. E allora dov’è la
diversità, la novità? Ma si dice per dire, l’autore non ha fatto che viaggiare.
Il libro del primo incarico universitario, a San
Paolo del Brasile, dove il maestro di Lévi-Strauss alla Sorbona, George Dumas, aveva
fatto aprire dai ricchi brasiliani una università, e vi svezzava i suoi discepoli.
Lévi-Strauss vi arriva come professore di Sociologia. E vi diventa etnografo.
Raccontando in dettaglio, con abbondanza di illustrazioni, le prime, faticose,
lente, complicate, ricerche, fra i Natikwé, i Bororo del Mato Grosso, i
Tupi-Kawahib – “che Montaigne ha incontrato a Rouen” – imparentati con i Tupi
americani, il sertão, le città inventate, allora
Goiania, prima di Brasilia, o Karachi. Irrispettose a volte: “L’Amazzonia, una
Frontiera fallita”, ridotta a scolare gli alberi della gomma. Dettagliate come
ogni buona ricerca etnologica – benché di molti reperti il giovane ricercatore
deve dire a più riprese che sono fruibili a Roma, portate dall’etnologo Guido
Boggiani, che le stesse zone aveva visitato nel 1892 e nel 1897, lasciando “di
questi viaggi importanti documenti etnografici, una collezione che si trova a
Roma, e un grazioso giornale di viaggio”. Ma è il libro di un scrittore, che si
fa leggere dall’inizio alla fine, perfino nei minuziosi inventari etnici o folklorici.
Pieno di bon mots e di illuminazioni.
Il tropico è triste: trasandato, presto
fatiscente, immemore. Ma il giovane ricercatore
sa farsene un tesoro. Essendo di curiosità insaziabile – quella del suo
etnografo tipo: “Simile ai fuochi indigeni della brousse, accende terreni talora vergini, li feconda per tirarne in
fretta qualche raccolto, e lascia dietro di sé un territorio devastato”. L’etnografo
che lui diventerà dopo. Sempre con riserva, l’etnologo volendo (“non so se sia
esatto in generale ma probabilmente è vero per molti di noi”) un disadattato: “La difficoltà di adattamento all’ambiente sociale
nel quale si è nati è il motivo che spinge a diventare etnologi”.
La prima parte è un’autobiografia
intellettuale. Con molte annotazioni fuori campo – Lévi-Strauss non era ancora
convinto di fare l’etnografo. Anzi, dirà alla fine: “In etnologia sono un
completo autodidatta: una prima rivelazione l’ho avuta per ragioni
inconfessabili: smania d’evasione, desiderio di viaggiare”. Ma non a suo agio
fuori della scienza, troppa faciloneria. Per cui il professorato resterà “il solo
mezzo offerto agli adulti per permettergli di restare a scuola”. L’impegno politico
invece è impossibile, è una contraddizione: “È guardare le cose dal di fuori, è
un’altra maniera di restare disimpegnati”. D’altra parte, “il liberalismo moderato
è l’arma ideologica abituale delle oligarchie per il potere personale”.
Soprattutto è ossessionato dalla filosofia, che
evidentemente lo attraeva: troppe congetture. “Il significante non si rapportava
più a un significato, non c’era referente”. Ridotta a arte meschina del calembour, delle omofonie e ambiguità, e
dei colpi di scena ingegnosi, in realtà secondo schemi ripetitivi. Al meglio,
“la filosofia non era ancilla scientiarum
ma una sorta di contemplazione consolatoria che la coscienza fa di se stessa”.
Ma più che altro un cicaleccio, attorno alla “riflessione decisiva che un
pensatore, o la società che creò la sua leggenda, perseguì venticinque secoli
fa, e alla quale la mia civiltà non poteva contribuire che confermandola” - “Ogni
sforzo per comprendere distrugge l’oggetto al quale ci eravamo attaccati, a
beneficio di uno sforzo che lo abolisce, a beneficio di un terzo, e così via di
seguito, fino a che non accediamo all’unica presenza duratura, che è quella in cui
svanisce la distinzione tra il senso e l’assenza di senso: la stessa da cui
eravamo partiti”.
Un monumento al Brasile. Ancora oggi, che il Brasile
si vuole industrializzato, fuori della “tristezza tropicale”, dell’antropologia.
Qui è là, prima e dopo le ricerche in Brasile, molte annotazioni di viaggio. Sul
mondo pulviscolare asiatico. Sulla città americana sempre simile, per la
leggerezza, a un’esposizione universale diventata permanente - ma l’America, vista
per la prima volta a Portorico nel 1933 o giù di lì, avrà sempre per
Lévi-Strauss un’aria ispanica.
“L’apoteosi di Augusto”, il capitolo
conclusivo, è la vita angusta, faticosa, poco produttiva, dell’etnologo al lavoro.Una
vita più di macerie pratiche che di ricerche: la malinconia, e il dramma, dei
pomeriggi “sopra l’amaca, dentro l’amaca, sotto la zanzariera spessa”, da
togliere la luce e il respiro. “Critico a domicilio, e conformista fuori”, anzi reazionario:
“Volentieri sovversivo tra i suoi e in ribellione contro gli usi tradizionali,
l’etnografo appare rispettoso fino al conservatorismo quando la società che osserva
è diversa dalla sua”.
Un viaggio contro il viaggio – da etnologo
quasi controvoglia. Ma ben un viaggio ricco, di novità ancora oggi che nulla
sembra più poter essere nuovo o ignoto: l’aneddotica riempie ogni pagina,
insieme con una tela di fondo da robusto narratore. Con incursioni temerarie in
varie direzioni, non solo nella filosofia e l’etnografia. Tra esse questa, alla
fine del § “San Paolo”, che raffronta l’Europa del 1955 a quella di vent'anni
prima, in molti modi profetica – la storia è come la fenice, si rigenera: “Pensando
a che cos’era l’Europa, e a quello che è oggi, ho imparato, vedendo superare in
pochi anni uno scarto intellettuale che si sarebbe creduto di parecchie generazioni,
come scompaiono e come nascono le società; e che questi sconvolgimenti della storia
che sembrano, nei libri, risultare dal gioco di forze anonime che agiscono nel
cuore delle tenebre, possono anche, nel lampo di un istante, compiersi per la
risoluzione virile d’un pugno di ragazzi ben dotati”.
Con una precisa visione infine, non artificiosa
come sembra, dell’europeo etnologo: “L’Europa offre forme precise sotto una
luce diffusa. Qui (nel tropico, n.d.r.), il ruolo, per noi tradizionale, del cielo
e della terra si rovescia. Al di sopra della scia lattiginosa del campo, le nubi
disegnano le più stravaganti costruzioni. Il cielo è la regione delle forme e dei
volumi: la terra conserva la morbidezza dei primi tempi”. E con la curiosa ripetuta
professione di amore, anzi un’identificazione, con Benvenuto Cellini, non certo
per la litigiosità, forse per la versatilità, manuale, pratica.
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, pp. 379, ill. € 24
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