Un’intervista sorprendente, d’iniziativa di un
sacerdote cattolico, della diocesi di Brooklyn, professore di Filosofia alla
St.Johns University di New York – autore recente di un “Pope Francis’ Profound
Personalism and Poverty”. Per una rivista di opinione quasi centenaria, di
orientamento liberal, gestita da
laici cattolici, con sede nel Centro Interchurch di New York. Woody Allen si
presta disinvolto a testimoniarvi il suo ateismo. Su un fondo sorprendente di
pessimismo radicale. A ogni obiezione, si può dire, di padre Lauder, che gli
ricorda questa o quella scena dei suoi film che si legge come una promessa o un
speranza, oppone al più un “forse”, tornando a insistere sul suo nichilismo,
sulla “schiacciante desolazione del mondo”.
L’intervista parte dalla constatazione che in
tutta la sua attività, di attore, scrittore, commediografo, sceneggiatore, regista,
Allen ha posto “questioni filosofiche e religiose – l’esistenza di Dio, la vita
dopo la morte, il senso della vita”. “Sono sempre state le mie ossessioni”, è la
risposta,” fin da piccolissimo”. Crescendo, notava che i coetanei si occupavano
di questioni sociali, l’aborto, il comunismo, le discriminazioni razziali, ma a
queste non è riuscito mai ad applicarsi – “mi interessavano come cittadino,
ma…”, dice, sono questioni di governo, più o men risolvibili, mentre lui era solo
preso dal senso della vita. Con l’humour, obietta l’intervistatore, come Frank
Capra? No, per l’ossessione: “Capra era un filmmaker molto più abile. Aveva una
tecnica enorme”, lui, Woody Allen, no: “Ho fatto quello che ho fatto perché
interessava me, di fatto mi ossessionava… Probabilmente avrei avuto più
pubblico se fossi andato in un’altra direzione”.
L’intervistatore insiste. “A un certo punto, in
«Hannah
e le sue sorelle», il suo personaggio, Mickey, è molto deluso. Pensa di farsi cattolico
e guarda «La guerra lampo». Come se pensasse: «In un mondo dove ci sono i Fratelli
Marx e lo humour, forse c’è un Dio, chissà»”. No, è la risposta: una sinfonia
di Mozart, i Fratelli Marx possono dare “una piacevole fuga per un momento, e questo è il massimo
che si può fare”. E non dà scampo nemmeno ai credenti: “L’ho detto bene alla
fine di «Harry
a pezzi»: tutti sappiamo la stessa verità; le nostre vite consistono in come
scegliamo di distorcerla, e questo è tutto”. Alcuni la distorcono “con cose
religiose”, altri con gli sport, il denaro, gli amori, l’arte, ma “niente dà un
senso”. Lauder insiste, ma Allen è irremovibile: “Non c’è giustizia, non c’è
una struttura razionale. Questo è quello che è, e ognuno s’immagina un modo di
fare fronte”. Un Woody Allen insolito, tragico. E non per ridere, come in più di un film
dice, di invidiare chi sa fare le tragedie. Forse per un ulteriore sberleffo a
se stesso, al suo essere ebreo – in contrasto con la solida corrente di pensiero
ebraica, ripresa per ultimo da Wittgenstein, che esclude gli ebrei dal tragico.
Robert E. Lauder, Woody Allen’s World: Whatever works, “Commonweal Magazine”, 15
aprile 2012 free online
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