lunedì 20 aprile 2020

Il mondo com'è (401)

astolfo

Francia – È ritornata la “figlia prediletta della chiesa” con la visita del presidente Macron in Vaticano il 25 giugno 2018? Il presidente francese avendo fatto valere nell’occasione il battesimo da lui eccezionalmente richiesto e ottenuto a dodici anni. In ricordo forse di Carlo Magno, che si era fatto battezzare proprio in Vaticano, nel cosiddetto “braccio di Carlo Magno”.
Lo è stata da tempo immemorabile, da Clodoveo I, 496. A Roma in Laterano, chiesa cattedrale della città, del vescovo di Roma, Macron ha ricevuto nell’occasione il titolo di “primo e unico canonico” della basilica, in quanto erede di Enrico di Navarra, l’ugonotto che si era fatto cattolico per diventare re di Francia, Enrico IV,  avendo deciso che “Parigi val bene una messa”. Con una cerimonia solenne, denominata “Célébration pur la France”, con preghiere e inni, e la benedizione del mons. Angelo De Donatis, vicario del papa e cardinale in petto. In udienza dal papa Francesco, Macron si era intrattenuto per un’ora, un tempo insolitamente lungo. E l’incontro era terminato con una carezza al papa, e un abbraccio.
La Francia era “figlia prediletta della chiesa” dalla conversione di Clodoveo, che aveva fatto del cristianesimo la religione di Stato. Fu residenza dei papi nel Trecento, ad Avignone. Il re francese aveva il titolo di “cristianissimo”. Un rapporto finito con la Rivoluzione del 1789, dopodiché la Francia fu “repubblicana”, cioè laica massonica. Come con le presidenze della Quinta Repubblica anteriori a Macron, specie con i socialisti Mitterrand e Hollande. Non col gollismo, invece. Il generale De Gaulle fu tra i primi a rendere visita a Giovanni XXIII, il 27 giugno 1959. Chirac fece vista a Giovanni Paolo II  nel 1996 per preparare i festeggiamenti per i 1.500 anni della conversione di Clodoveo e della Francia. Sarkozy a Natale del 2007 fece visita a Benedetto XVI rinnovando la cerimonia al Laterano, e confermando per la Francia il titolo, leggermente modificato, di “Figlia primogenita della Chiesa”.
Nella storia più volte la Francia ha sostenuto il papato. A cominciare da Pipino il Breve, chiamato in Italia dal papa Stefano II contro  Longobardi. Pipino fece due spedizioni, conquistò l’esarcato di Ravenna, e ne fece dono al papa, embrione del futuro Stato pontificio. Il fratello e successore del papa Stefano II, Paolo I, diede alla Francia come protettrice santa Petronilla, martire romana venerata come figlia di san Pietro – nella cappella che ospita il sarcofago della santa, sul alto destro di San Pietro, si celebra il 31 maggio una messa per la Francia, alla presenza dell’ambasciatore e del capitolo della basilica. Con Carlo VIII, sono i re francesi che diventano “figlio primogenito” della chiesa. Tradizione che finisce con Luigi XVI. Napoleone si qualificherà “figlio primogenito della chiesa” nella corrispondenza col Vaticano, ma Pio VII – che di Napoleone fu prigioniero a Fontainebleau per alcuni anni – non diede cenni di riconoscimento.
La dizione “Francia figlia primogenita” appare con Lacordaire, o Ozanam, negli anni 1830, ed è assunto dalla Repubblica del 1848. Pio IX la usa ufficialmente dopo essere stato ristabilito a Roma dalle truppe fracesi nel 1849.

Garibaldi – “Dalle logge massoniche dell’Uruguay alle logge  massoniche di Scozia”: lo scrittore Jean-Noël Schifano, “napoletano” ad honorem, fervente anti-unitario, lo fa “il Grande Agitato” in un ritratto dissacratorio con cui chiude “Le corps de Naples”. “Un metro e sessantacinque, gambe arcuate, vermiculate  di reumatismi, due persone per issarlo in sella, capelli lunghi per mascherare l’assenza di un’orecchia morsa e strappata da una dona violentata, due volte supremo grado 33 delle massonerie, che non aveva braccia abbastanza lunghe per sguainare da solo la spada”. E ancora: “Si moltiplicò sotto differenti uniformi mercenarie dall’Argentina a Genova-Quarto, da dove partì la spedizione dei Settecentodue, le cui camicie rosse provenivano da uno stock rubato ai mattatoi di Buenos Aires”.

Maria d’Avalos - Stendhal manca ne “La duchessa di Paliano”, a proposito degli eventi tragici dentro la famiglia Carafa, quello ancora più eclatante che avrebbe avuto luogo a Napoli qualche anno dopo i fati da lui narrati. L’assassinio di Fabrizio Carafa nel 1590, per mano di Carlo Gesualdo principe di Venosa, nonché “principe dei musici”, che un piccola corte intratteneva alla composizione di madrigali, di cui è l’autore forse maggiore e il più famoso, insieme con la propria moglie Maria d’Avalos, trent’anni e tre mariti, di cui Fabrizio era l’amante.

Maria, già famosa di bellezza, era stata sposata a quindici anni a Federico Carafa. Anche lui giovane, colto, sapeva di latino e greco, e bello, noto come “un angelo terreno”.  Maria era figlia di Carlo D’Avalos, di nobiltà ispanico-napoletana, una famiglia di governatori di Milano e viceré di Sicilia. Carlo era nato a Milano, da Alfonso, governatore per conto di Carlo V, che lo avrebbe anche tenuto a battesimo, donde il nome. Alfonso è il dedicatario della “Priapea” di Nicolò Franco, il “Gran Marchese”, il “divino Alfonso”, il “sacro Alfonso”, il “magnanimo Alfonso”, nonché “generosissimo” – benché gli osceni sonetti non risparmino Carlo V. 
Il matrimonio si fece nel marzo 1575, ne nacquero due figli, e poi, a ottobre del 1578, Federico all’improvviso morì. Quindici mesi dopo un doppio matrimoni fu combinato: Maria andò sposa in Sicilia ad Alfonso Gioeni, marchese di Burgio e Giuliana, mentre suo fratello Alfonso Francesco ne sposava la sorella, Margherita Gioeni. Il doppio matrimonio finì male: nel 1584 Alfonso Francesco resterà vedovo di Margherita, due anni più tardi vedova resterà Maria. Ma per poco.
Rientrata a Napoli, Maria fu subito sposata nello stesso 1686 a Carlo Gesualdo, principe di Venosa, figlio di Geronima Borromeo, sorella di Carlo, il futuro santo, nipote del papa Pio IV, Giovanni Angelo Medici di Marignano – che per aver e combinato il matrimonio aveva nominato cardinale lo zio paterno di Carlo, Alfonso Gesualdo. Lei di 25 anni con due figli, lui di 23. Con una dispensa papale speciale di Sisto V Peretti, per l’età di lui, e perché gli sposi erano cugini: la madre di Maria, Sveva Gesualdo, era zia di Carlo. Il papa non voleva, ma fu presto convinto. La coppia andò ad abitare a palazzo Sansevero, in piazza san Domenico Maggiore, un edificio che sarà reso famoso due secoli più tardi da Raimondo di Sangro, filosofo, alchimista, esoterista, Gran Maestro della massoneria, e artefice nel 1753 della cappella Sansevero o del “Cristo velato”, del Cristo che “traspare” sotto un  sudario di marmo.
La coppia ebbe un figlio, Emanuele. E visse senza storia, a parte l’attività musicale di lui. Finché a un ballo Maria non incontrò Fabrizio Carafa, duca d’Andria, suo coetaneo. Sposato anche lui, con una Carafa lontana cugina, impalmata quando lei aveva tredici anni, e anche lui padre, di quattro figli. Ma “bello come un Adone e forte come Marte”, dicono le storie. Ne nacque una tresca. Che fu svelata a Carlo  dallo zio Giulio Gesualdo, sposo a Napoli di Laura Caracciolo, il quale si era invaghito della nipote e l’aveva corteggiata, ma ne era stato rifiutato.
Il principe musicò inventò un battuta di caccia agli Astroni, nell’agro napoletano, abbastanza lontano per non consentirgli ritorni precipitosi, e si apposto vicino il palazzo Sansevero, in casa di parenti. Il racconto dell’eccidio è stato fatto dalla cameriera della principessa, Silvia Albana. Maria morì sgozzata, con molte coltellate in tutto il corpo, l’amante fu ucciso con due archibugiate, e sfregiato di coltellate. A opera di Carlo, e di un suo uomo di mano, Pietro Maliziale detto “Bardotti”. Il quale il giorno dopo agli inquirenti testimonierà in modo da scagionare il suo padrone. Consegnò una chiave degli appartamenti della morta, dicendo che ce l’aveva l’amante. E testimoniò che il principe Carlo era andato a letto normalmente la sera prima, e quindi non c’era premeditazione: erano intervenuti a palazzo Sansevero perché attratti da rumori molesti, e lì il principe s’era reso conto del tradimento.
Maria fu sepolta a san Domenico Maggiore, su disposizione della madre Sveva Gesualdo, la zia di Carlo. Fabrizio Carafa invece non ebbe funerali: la vedova Maria Carafa, 24 anni, ne consegnò la bara a un gesuita per la sepoltura, e si ritirò in convento.  
Tre anni e mezzo dopo il duplice delitto d’onore, Carlo Gesualdo principe di Venosa sposava Eleonora d’Este. Proverà successivamente a sposare il figlio Emanuele, avuto da Maria d’Avalos in casa d’Este, con la figlia di Cesare, fratello di Eleonora, che aveva tentato di proclamarsi duca di Ferrara alla morte del cugino Alfonso II, a fine 1597, ma scomunicato dal papa aveva ripiegato sul più modesto ducato di Modena. Malgrado la bassa fortuna, Cesare non fu entusiasta del matrimonio, e allora Carlo sposò Emanuele in Boemia, con la contessina Maria Polissena zu Fürstenberg.  

astolfo@antiit.eu

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