Osservazioni da entomologo non soltanto formali.
Anzi non formali ma storiche.Le migrazioni dei popoli si ampliano con le
guerre, e con lo sviluppo dei mezzi di trasporto. Ma ci sono conunque, per “l’attrazione
dell’indistinto” – o meglio la deriva: “Ogni più disperato tentativo, spinto
anche fino alla lotta per la vita e per la morte, di arrestare la mescolanza
delle razze è destinato a naufragare”.
Il mondo trascorre, cambia, muta. Nel caso, “la
mescolanza, così come la fulminea moltiplicazione della popolazione terrestre,
non comporta solo pericoli e motivi di inquietudine”: si spuntano le
differenze, si equiparano “le piccole sorti con le medie”, ma si “aumenta anche
la possibilità di un’eccellenza più grande, che il livellamento nasconde”. Dal
punto di vista zoologico, “le specie vengono diminuite e le varietà accentuate”.
Semplice? No: “Il venir meno delle distinzioni riguarda la specie uomo”.
Un tentativo di assestamento formale, di definizioni,
di psico-sociologia, che è però un trattato di sociobiologia. L’unità è – viene
– nella metamorfosi, l’unità dell’universo. L’uomo è alla fine di un ciclo, di
individuazioni e denominazioni, classificazioni: di creazione di “tipi”. Che
ora va in dissoluzione.”Lo spirito segue leggi cosmiche: come secondo gli
antichi l’universo si immerge periodicamente nel fuoco per rinnovarsi, così
esso tende anche all’indistitno”. Da cui proviene, si è emanato – anche se
tende a dimenticarlo: “Intueor”,
osservo attentamente, esamino, viene nella forma passiva. E da cui rinascerà:
“La sorgente delle immagini lo lava dal saputo, dalla polvere delle biblioteche
e dei musei, dalla zavorra dei tipi”. Lo libera dalle incrostazioni, vergine
per nuovi inizi. È la filosofia dopo Nietzsche, che dopotutto era un
rivoluzionario, voleva ribaltare la filosofia e il mondo, anche lui – un
visionario, un millenarista.
Al centro – anche fisico del libro, ai §§ 57-84
– Nietzsche. Incagliato nel suo rifiuto dei “Tipi” di Wagner, come di quelli
cristiani. Il concetto di Tipo, di formazione della storia, Jünger elabora per aprire uno
sbocco ai tentativi di Nietzsche di scrollare il mondo. Uno sbocco ragionato,
piuttosto che Bizet invece di Wagner, Molière invece di Shakespeare, e il
“ritorno alla natura” con Rousseau: incongruenze, se non farneticazioni, di cui
Jünger non sottace l’assurdità,
rinviando all’“umorismo da Till Eulenspiegel”. Oltre Nietzsche tornando all’antico,
a san Paolo, a Angelo Silesio. “Il celebre «Dio è morto» di Nietzsche era stato
pensato “molto tempo prima di lui”, in altro contesto, da “certi spiriti dell’Illuminismo
cui in parte Nietzsche stesso si è richiamato” – Jünger cita Sade, e poi Dostoevskij
(“anche lo Svidrigailov di Dostoevskij gli è imparentato”, il cattivo malgré soi di “Delitto e castigo”).
Il progresso è delle cose. “Il regresso al mito
non basta più. Il mito può in parte produrre cambiamenti, anche suscitare
sciagure, e tuttavia solo entro il flusso e come correnti contrapposte di
possenti inondazioni”. Come, si direbbe, oggi, nel clima palingenetico che
stiamo vivendo, non fosse artificiale, indotto - promozionale, quasi
pubblicitario, “come vi vendo bene la catastrofe”. “Dobbiamo risalire molto più
indietro dei tipi mitologici, molto più indietro degli stessi tipi. Dei ed eroi
non possono più rovesciare il destino”. Il vero progresso è quello di
Baudelaire, del “procedere della materia”. Il moto è costante: “Se il padrone
di casa non trova più confortevole la propria dimora, la ricostruirà o la arrederà
in modo diverso. Se ciò non gli basta, la farà demolire. Lo stesso vale, in proporzioni
più grandi, per una chiesa, un castello o una città”. Lo stesso come il pittore
di un quadro cui sta lavorando he più non lo soddisfa, che “ne cambierà i
tratti mentre ancora lo dipinge”, oppure “tornerà indietro fino al fondo”.
Una classificazione: cosa è Tipo, cosa è Forma,
Gestalt. Ma radicale, di uno “uno
sguardo che penetra attraverso il velo della quotidianieità e anche della
storia”. Senza esagerare, onestamente, con argomentazione piana. I Nomi sono
delimitazioni di “una pienezza senza nome”. “Natura, Terra, Madre sono nomi per
l’indistinto, ma sono anche già ripartizioni di esso”. Un nuovo inizio? È semrpe
possibile, e forse inevitabile: “Al di soto del mondo organico si cela una
forza che seleziona modelli, che li attiva e che li provoca”. Comuni anche a “popoli
assai lontani l’uno dall’altro nello spazio e nel tempo”. Un’attrazione “primaria
e inesplicabile”: “Essa scende profondamente fino all’inorganico”. Molto insomma
resta da fare: “L’ampiezza della nostra conoscenza è inferiore a quella della
nostra ignoranza”.
Sul concetto chiave di forma, Gestalt, Jünger si era dilungato già
nell’“Operaio”, 1932, e poi in “Al muro del tempo”, 1959. Lo riprende nel 1963 in
questo trattato in toni curiosamente presaghi del’attualità, già da prima del
coronavirus. Nel 1932 la Forma era la tecnologia. Ora è immagine: incertezza, o
indistinto – se per la traccia discendente che la sottende, dissolvente. “L’universo
vive in una profondità che non conosce Nome”.
Iadicicco arricchisce la traduzione con note succose.
E con una elaborata Nota al testo, che mette il saggio in quadro nell’opera di Jünger.
Ernst Jünger, Tipo Nome Forma,
Herrenhaus, pp. 170 € 13
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