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giovedì 9 aprile 2020

Letture - 416

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Bergoglio – Non vende. I libri di e sul papa Francesco non vendono, scrive Filippo Di Giacomo sul “Venerdì di Repubblica”: “L’editoria cattolica italiana nel mercato confessionale globale è scesa al terz’ultimo posto”. Tutta colpa, per il vaticanista, dei “bergoglioni”, che dice indiscreti e vacui: “Ostentano il tu con cui si rivolgono al papa, mandano in onda telefonate private, registrazioni di colloqui informali, foto rubate” – “si autoreferenziano e si complimentano a vicenda, si ringraziano tra loro e si premiano a turno”.
La crisi dell’editoria religiosa Di Giacomo lega comunque all’avvento del bergoglismo: “Fino al 2012 aveva vissuto un momento d’oro, resistendo anche alla crisi economica del 2008, letale per l’editoria in genere, ma non per quella religiosa”. Era anche un’epoca in cui “il 38 per cento di chi leggeva almeno un libro religioso all’anno non era cattolico praticate, talvolta neppure credente”. E “la percentuale più alta era costituita da giovani professionisti tra i 18 e i 50 anni con titolo di studio elevato”. Era l’“effetto Ratzinger”.
 
Biglossia – Categoria che Furio Brugnolo propone (in “La lingua di cui si vanta Amore”, 23) a proposito di scrittori che o, “1, appartengono a pieno titolo a due lingue e a due letterature”, oppure “2, operano in contesti culturali e letterari istituzionalmente e anzi, per così dire, costituzionalmente poliglotti”. Senza però essere considerati scrittori della lingua acquisita, non nei repertori storici.  Per il primo caso Brugolo fa l’esempio di Bechett, inglese e francese, e di Yvan Goll, francese e tedesco. Oltre a quelli classici di Gilles Ménage-Egidio Menaggio, e di François Régnier Desmarais, il francese che tradusse in italiano Anacreonte e Omero (la traduzione parziale dell’“Iliade”è ancora leggibile, e anzi si segnala per il piglio, per gli endecasillabi cadenzati, in tono).
Della seconda specie Brugnolo cita gli italo-slavi. Ma il caso più nutrito è degli anglo-indiani.
Della prima si possono citare Jacqueline Risset, che si esprimeva liberamente in francese e in italiano o in Jhumpa Lahiri, a suo agio in inglese (americano) e italiano. Pur facendo parte entrambe delle “storie letterarie” della lingua di origine, francese e americana.

L’uso più esteso è però una forma di poliglottismo. Comune in  Russia e in Germania nell’Ottocento per quanto riguarda il francese una forma di distinzione sociale, nobile-altoborghese: Thomas Mann nei dialoghi che concludono la “Montagna incantata” (lo stesso Mann terribile antigallico delle “Considerazioni di un impolitico”), Tolstoj in Guerra e pace”. Lo stesso si può dire di D’Annunzio o Ungaretti. O nel Settecento di Galiani, Casanova, Goldoni. Degli italiani che usano l’inglese, con qualche padronanza, si possono citare Pavese, Fenoglio, Amelia Rosselli, e Foscolo.
Di Th. Mann si può considerare peraltro l’uso del francese diminutivo, se non derisorio, concludendo il romanzo della crisi della cultura europea. Solo cinque o sei anni prima, nelle “Considerazioni di un impolitico”, essendo stato ferocemente antifrancese. Il fratello Heinrich Thomas giunse a disprezzare perché non abbastanza nazionalista, non antifrancese.

Dante – Rinasce nel Novecento nei “Cantos” fascisti di Pound, il 72 e il 73 – specie il primo? L’ultimo dei “Quattro quartetti” di Eliot è ritenuto la più dantesca ripresa di Dante: l’incontro, in una Londra distrutta dai bombardamenti, con lo spirito di un trapassato – sul modello di Dante con Brunetto Latini, nel canto XV dell’“Inferno”. Ma Pound va forse più in là, nel primo dei due “Cantos” mussoliniani, il 72: per l’uso disinvolto dell’endecasillabo, l’incatenamento delle terzine, le rime a distanza, le modalità verbali – le varie tipologie di locutio  dantesca: il plurilinguismo e il pluristilismo, apocopi e aferesi, e costrutti arcaizzanti, colloquiali, familiari, alternati con quelli innovativi, non tralasciando il gergo rozzo, specie nell’invettiva.

Poesia – Un mese e mezzo, quasi, ai domiciliari da pandemia, non ha spento la vena poetica: “La bottega della poesia”, la pagina  settimanale che Gilda Policastro tiene sabato su “la Repubblica-Roma” è sempre piena di contributi. Anche aggiornati, l’ultimo è sul lockdown.

Italiano Fu un sorta di lingua franca per tre-quattro secoli, dei pellegrini a Roma, e anche la lingua dell’Europa colta, accanto al latino. A partire da Petrarca, dal petrarchismo. Fino a tutto il Settecento, quando italiano non è soltanto il linguaggio della commedia e la lingua della musica, Mozart compreso, nella corrispondenza e nelle opere, nonché il langage des dames, ma è anche il disegno architettonico e urbanistico, la critica dell'economia, e perfino la speculazione filosofica. Per Vico, Giannone, Pietro Verri – dopo Giordano Bruno e i calabresi Campanella e Telesio. L’“Antropologia pragmatica” di Kant, sintesi di trent'anni di corsi universitari, fa ampio ricorso alla filosofia italiana, specie in materia di piacere e dolore, di filosofia e teodicea.

Si è scritto molto in italiano in Francia: Rabelais, la regina Margherita, i poeti del Cinquecento, specialmente Louise Labé, Montaigne, perfino Diderot in una pagina irriguardosa (la prostituzione omosessuale) dei “Gioielli indiscreti”. Voltaire aveva eletto l'italiano a langage des dames per corrispondere con la nipote Marie Louise Mignot, “Madame Denis”, che leggeva e scriveva italiano, e altre amanti. Scrisse in veneziano a Goldoni, come documenta una vecchia pubblicazione di Emilio Bodrero, il nazionalista che fu deputato e senatore fascista fino al 1943, “Poesie e prose in italiano di scrittori stranieri”, uscito postumo sessant’anni fa. E a Cesarotti con lusinga: “In italiano si dice tutto ciò che si vuole, in francese solo quel che si può”. Padroneggiava l’italiano anche nelle derive burlesche o satiriche, alla Pulci, alla Folengo.

Rabelais, nel curriculum che apre il”Terzo Libro” di “Gargantua e Pantagruel”, vanta di avere scritto delle opere “in toscano”. Al capitolo IX del “Secondo Libro” Pantagruel, incontrando per la prima volta Panurge, lo sente esprimersi in quattordici lingue, avendo frequentato il mondo poliglotta degli studenti, compreso l’italiano - terza lingua dopo l’arabo e l’ebraico …. (il francese viene per ultimo). Un italiano affettato, curiale, nello stile della prosa codificato da Bembo, praticato da Castiglione e Sannazzaro. Ma col sottofondo del Pulci, nell’immagine della cornamusa che per suonare vuole il ventre pieno: “Signor mio, voi videte per exemplo che la Cornamusa non suona mai s’ela non à il ventre pieno”.  Alla stessa maniera si eserciterà ancora Diderot, alla pagina aretinesca dei “Gioielli indiscreti”, di “bacci alla fiorentina”, tra uomini, “i quali ci pagarono con generosità”.

Di Voltaire si sono conservate 178 lettere scritte in italiano,  ad Algarotti e Goldoni tra i tanti. I più uomini di chiesa: sacerdoti, frati, gesuiti, teologi, cardinali, e i due papi Benedetto XIV (tre lettere) e Clemente XIII. Con Benedetto XIV, un intellettuale, gli scambi furono culturali. A Clemente XIII Voltaire inviò, congiuntamente con Mme Denis, la richiesta di un reliquia di san Francesco per una chiesa che “Francesco di Voltaire” intendeva edificare “nelle vicinanze dela Herezia”. Non uno scherzo blasfemo, come si potrebbe pensare: le reliquie furono spedite, al chiesa fu edificata, e Votaire vi prese anche al comunione, per dare “un esempio edificante” ai popolani.
Anche Voltaire scrive “baccio”, con due c, come Diderot - e “adio”, con una d. Nel 1746 aveva scritto un trattatello in italiano, “Saggio intorno ai cambiamenti avvenuti su’l globo della terra”, per essere accettato quale membro di cinque accademie, quella della Crusca, e quelle di Bologna, Firenze, Roma e Cortona.

Numerosi nel Settecento gli italiani che scrissero anche in francese: Galiani, Goldoni, Casanova. Mentre si scriveva in italiano, sempre nel Settecento,  anche in Germania, incluso l’antipatizzante Herder. In casa Goethe c’era un istitutore d’italiano. Il padre di Goethe, Johann Caspar, scrisse un prolisso “Viaggio in Italia” in italiano. Mozart scriveva indifferentemente in italiano e in tedesco.
Il Settecento era tempo di eteroglossie, a giudizio di Gianfranco Folena, “L’italiano in Europa”: una sorta di cosmopolitismo linguistico. Ma italiano era indubbiamente il linguaggio della cultura. Da Pietroburgo a Madrid. Fino a Ottocento inoltrato, alla “nostra Italia” di Elisabeth Barrett Browning. Compresi, a Londra, i Rossetti padre e figlia, Gabriele e Christina. Christina, di famiglia italiana anche per parte di madre, una Polidori, sorella del medico di Byron, fu in Italia una sola volta, non entusiasta, ma tradusse e imitò Metastasio.

Respect – Spectre: è l’ultimo anagramma di Gianni Mura, l5 marzo,  su “la Repubblica”. Anche nell’ultima malattia ci vedeva chiaro.

Roma – “Una città dove quasi nessuno ha davvero una meta”, Patrizia Cavalli, “Con passi giapponesi”, 66. A condizione di alzarsi tardi.
È vero però che rimane affollata anche dopo.

Sartori – Il “Corriere della sera” fa tesoro di Giovanni Sartori, che ne è stato commentatore politico negli ultimi anni, e ne celebra la memoria in ogni occasione – ora anche in due pagine per i tre anni dalla morte. Far entrare Sartori in azienda fu difficile nei tardi anni 1980, che pure erano di grandi progetti di riforma istituzionale. Il professore rispondeva volentieri da New York, dove insegnava. Ma non interessava a nessuno. A stento qualche intervista minima, tipo “naso” (riquadro), si poté pubblicare sul settimanale “Il Mondo”. Non che fosse uno sconosciuto – la sua fama anzi riverberava dall’America. Ma era liberal, e non andava bene al compromesso storico.

letterautore@antiit.eu

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