Giuseppe Leuzzi
“Per
anni mio marito, barese, si è ostinato
salutare i vicini milanesi, ricevendone una sovrana indifferenza”,
racconta “Elasti”, Claudia de Lillo, sul settimanale “D la Repubblica”. È vero?
È verosimile, molto.
Il
marito, “economista marxista barese”, insegna a Londra ma la metà del tempo è a
Milano.
“Sono
di Reggio Calabria e a RegGio non cambiamo idea facilmente!”. Così Fubini fa
esordire sul “Corriere della sera” Domenico Arcuri, il commissario del governo
per l’emergenza. Usava dire-dirsi del calabrese che è “testardo”. Cocciuto, e
quindi affidabile. Ma dev’essere una specie che si è perduta – insomma, poiché
c’è Arcuri, si sta perdendo.
Arcuri
non aveva finito di parlare che le farmacie hanno reso infine reperibili le
mascherine, che epr settimane avevano sottratte al commissario governativo, ma
imponendo il prezzo che usavano prima sottobanco: € 7,50 a mascherina, quindici
volte il prezzo equo di Arcuri. Per un prodotto senza provenienza e senza
garanzia. Il seme delle teste dure in Calabria si va perdendo, senza che la
Calabria cominci a scoprire l’Italia.
Niente
tamponi e niente drammi (distanziamento, mascherine, chiusure) per il contagio
in Svezia. Che per questo viene ad avere, benché relativamente isolata, uno dei
tassi di mortalità più alti per contagio in rapporto alla popolazione –
quattromila su dieci milioni di persone. È un altro modo di concepire la vita,
singola (la Svezia pratica pure l’eugenetica sui nascituri) e in comunità. Più
o meno felice? Sicuramente più ricca.
“A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e
a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. È criptico il vangelo di Matteo,
13,12. Ma una cosa è chiara: il sottosviluppo è una battaglia con se stessi –
checché il Vangelo voglia dire.
La ruga
calabrese
Una
stranezza del romanzo di Scalfari, “La
ruga sulla fronte”, 2001, è l’uso in alcuni episodi del dialetto calabrese. Che
è diventato materia di un paio di film recenti - come lingua, quindi in
traduzione nei sottotitoli - ma mai nella narrativa, anche di narratori localistici,
come Criaco e Gangemi. Si trovano forme espressive calabresi in narratori
italo-americani, italo-canadesi, italo- australiani, ma non in italiano.
Scalfari
lo usa nella forme del vibonese, attorno a Stefanaconi. Quindi a memoria, dai
due anni che vi trascorse a fine guerra, dopo il 1944. Dopo, cioè,
cinquant’anni. E per averlo solo ascoltato, molto probabilmente, all’epoca ma
non praticato. Per un periodo breve. Ma con appropriatezza, semantica, se non
fonetica e lessicale. Il dialetto della parlata borghese, quindi addolcito.
Anche articolato e pieno, non asintattico. Né gutturale quale usa - per suoni
tronchi. Ma “naturale”, filologicamente espressivo, e preciso.
Preciso
anche nei caratteri. Il lamento funebre del vecchio, che piange la moglie morta,
è piccolo capolavoro di filologia Sociale, linguistica, espressiva,
significativa. E della figlia: “Matri, tu ‘ndi facisti e ‘ndi criscisti…”. Lo
usa per caratteri fermi, stabili. Bene o male che si indirizzino. Un ricordo –
un tributo? – probabilmente paterno: del padre presente-assente, che ha fatto
nella vita quello che ha voluto (è stato l’inventore e l’animatore della
fortuna turistica e mondana di Sanremo, negli anni 1930, da direttore del
casinò), senza considerazioni di opportunità o di semplice prudenza. Molto in
carattere.
Pasolini leghista
Il poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di
Wikipedia, “apparve nell’aprile del 1954 su «Paragone-Letteratura» e
rappresenta la contrapposizione tra la cupa tristezza dell’Agro romano e la
limpida luminosità del settentrione”. Il Nord, il cui emblema sono le rondini,
è puro e umile e il Meridione è “sporco e splendido”. Con qualche attenuazione,
ma alla fine con durezza: “È necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/
al meglio”, cercando di lottare nella sofferenza, senza lasciarsi andare alla
“rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che il greco
meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica
chiamava sineciosi”,
annota Fortini - che la dice “la più frequente figura del linguaggio di
Pasolini” - “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”.
Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e
“Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È
diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante
calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune
l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno
in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre
1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi
“amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un
fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore
dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un
fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel
lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle
persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta
che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà
fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il
premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa
volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche
questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni
italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in
fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata,
anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può
che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio
tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria
angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità,
dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono
uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e
ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e
“Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È
diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante
calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune
l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno
in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre
1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi
“amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un
fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore
dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un
fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel
lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle
persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta
che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà
fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il
premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa
volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche
questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni
italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in
fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata,
anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può
che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio
tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria
angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità,
dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono
uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e
ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
La borghesia, in Calabria, “è forse la peggiore d’Italia: appunto
perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene,
come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche,
convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti
i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in
Calabria sono fascisti”.
Pasolini è partito dicendo che il suo reportage dalle coste italiane dell’estate precedente – seimila
chilometro in 48 ore per il mensile “Successo” - non ha detto della Calabria,
di Cutro in particolare, ciò che ha detto. “Una calunnia”, protesta, “umiliante
per i calabresi e ingiusta per me”, che “ha creato uno dei più esasperati
equivoci che possano capitare a uno scrittore”. Ma ne pensa, nella bontà,
peggio.
Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il
titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua
insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).
Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.
Sicilia
Jean-Noël
Schifano, lo scrittore, si vuole”franco-siciliano”, la memoria del padre
riscoprendo con l’età, “muto come tutti i siciliani” - nonchè “italianista di
eccellente fama, amico di Moravia, di Morante e di Malaparte, tra i tanti”.
Il
tramonto è esercizio retorico amato e vastamanente praticato nella Sicilia a
ponente, da Palermo a Trapani, Mazara e oltre – di tutti i motivi d’interesse
era quello più caldamente consigliato dal vecchio proprietario dell’albergo
Sole di Trapani. Ma che dire di
Carducci, “La chiesa di Polenta”: “Una di flauti lenta melodia passa invisibil….
un oblio lene de la faticosa vita, un pensoso\ sospirar quïete, una soave
volontà di pianto…”. Il tramonto non distingue.
De
Amicis ha gli “occhi siciliani”, nel suo ultimo scritto, “Ricordi d’un viaggio
in Sicilia, “così profondi, così acutamente scrutatori,così pieni di sentimento
e di pensiero, e pur così misteriosi”. Ma, aggiunge, “quando il loro sguardo
non è spiegato dalla parola, o animato da una passione determinata”. Allora,
non ci può “esser dubbio”. Ma forse si sbagliava, lo sguardo dice di più, e
senza dubbio.
Però,
aggiunge da viaggiatore accorto, quegli occhi sono “l’espressione visibile
della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile a definirsi,
così vario in sé medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie, di
lacune”. Incontournable, si direbbe
in francese, irriducibile, inafferrabile.
Il
siciliano, “disse uno scrittore dell’isola”, annota ancora De Amicis, “pensa e
sente come un arabo, agisce come un greco,concepisce la vita come uno
spagnuolo”. Cioè?
“Strano
carattere”, conclude l’autore di “Cuore”, “violento e tenace nella passione,
debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo
scetticismo”. Entusiasta e scettico insieme, per questo ingovernabile?
Il
“fortissimo sentimento individuale”, trova ancora De Amicis, che altrove “è il più
grande propulsore di iniziative”, in Sicilia “produce l’effetto di far curvare l’individuo
di fronte all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare la
moltitudine a pochi padroni”. E, questo è vero, “di perpetuare lo spirito del
feudalismo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita
pubblica!”.
Garibaldi
volle tornare a Palermo nel 1882, invecchiato, incurvato. Fu ricevuto da una
folla immensa, e silenziosa. Per “non recargli molestia”, scrissero le cronache.
O non era già a lutto? Per Garibaldi?
Non
ha posto per Verga. Non da ora. Che fu pure scrittore boulevardier, come da qualche tempo va di moda – e rispettabile
(senza gara al confronto coi Notari o i Lucio d’Ambra, perfino con un certo
D’Annunzio). E poi forte verista – più “vero” (riuscito) di Zola, che invece la
Francia sempre celebra.
Non
ne parlano Sciascia e Camilleri, per motivi etnici (provinciali), appesi a
Pirandello, a Agrigento – Verga è di Catania. Ma non ne parla il catanese – e boulevardier per eccellenza – Brancati.
E non ne parlano i siciliani un po’ apolidi, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Bufalino.
Dei
due dirigenti pubblici anti-coronavirus arrestati a Palermo per corruzione,
uno, Antonino Candela, il più intraprendente, aveva la scorta, come esponente
di punta dell’antimafia, e ha avuto una medaglia d’argento “al Merito della
Sanità Pubblica” dal presidente Mattarella.
Alti
due esponenti antimafia sono a processo in Sicilia: la giudice Saguto e l’ex
presidente di Confindustria Sicilia Montante. Il fiuto degli affari non manca,
ma s’indirizza al peggio per il carattere siciliano o per il carattere dell’antimafia?
leuzzi@antiit.eu
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