venerdì 22 maggio 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (426)

Giuseppe Leuzzi
“Per anni mio marito, barese, si è ostinato  salutare i vicini milanesi, ricevendone una sovrana indifferenza”, racconta “Elasti”, Claudia de Lillo, sul settimanale “D la Repubblica”. È vero? È verosimile, molto.
Il marito, “economista marxista barese”, insegna a Londra ma la metà del tempo è a Milano.
 
“Sono di Reggio Calabria e a RegGio non cambiamo idea facilmente!”. Così Fubini fa esordire sul “Corriere della sera” Domenico Arcuri, il commissario del governo per l’emergenza. Usava dire-dirsi del calabrese che è “testardo”. Cocciuto, e quindi affidabile. Ma dev’essere una specie che si è perduta – insomma, poiché c’è Arcuri, si sta perdendo.
 
Arcuri non aveva finito di parlare che le farmacie hanno reso infine reperibili le mascherine, che epr settimane avevano sottratte al commissario governativo, ma imponendo il prezzo che usavano prima sottobanco: € 7,50 a mascherina, quindici volte il prezzo equo di Arcuri. Per un prodotto senza provenienza e senza garanzia. Il seme delle teste dure in Calabria si va perdendo, senza che la Calabria cominci a scoprire l’Italia.
 
Niente tamponi e niente drammi (distanziamento, mascherine, chiusure) per il contagio in Svezia. Che per questo viene ad avere, benché relativamente isolata, uno dei tassi di mortalità più alti per contagio in rapporto alla popolazione – quattromila su dieci milioni di persone. È un altro modo di concepire la vita, singola (la Svezia pratica pure l’eugenetica sui nascituri) e in comunità. Più o meno felice? Sicuramente più ricca.
 
 “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. È criptico il vangelo di Matteo, 13,12. Ma una cosa è chiara: il sottosviluppo è una battaglia con se stessi – checché il Vangelo voglia dire.
 
La ruga calabrese
Una stranezza  del romanzo di Scalfari, “La ruga sulla fronte”, 2001, è l’uso in alcuni episodi del dialetto calabrese. Che è diventato materia di un paio di film recenti - come lingua, quindi in traduzione nei sottotitoli - ma mai nella narrativa, anche di narratori localistici, come Criaco e Gangemi. Si trovano forme espressive calabresi in narratori italo-americani, italo-canadesi, italo- australiani, ma non in italiano.
Scalfari lo usa nella forme del vibonese, attorno a Stefanaconi. Quindi a memoria, dai due anni che vi trascorse a fine guerra, dopo il 1944. Dopo, cioè, cinquant’anni. E per averlo solo ascoltato, molto probabilmente, all’epoca ma non praticato. Per un periodo breve. Ma con appropriatezza, semantica, se non fonetica e lessicale. Il dialetto della parlata borghese, quindi addolcito. Anche articolato e pieno, non asintattico. Né gutturale quale usa - per suoni tronchi. Ma “naturale”, filologicamente espressivo, e preciso.
Preciso anche nei caratteri. Il lamento funebre del vecchio, che piange la moglie morta, è piccolo capolavoro di filologia Sociale, linguistica, espressiva, significativa. E della figlia: “Matri, tu ‘ndi facisti e ‘ndi criscisti…”. Lo usa per caratteri fermi, stabili. Bene o male che si indirizzino. Un ricordo – un tributo? – probabilmente paterno: del padre presente-assente, che ha fatto nella vita quello che ha voluto (è stato l’inventore e l’animatore della fortuna turistica e mondana di Sanremo, negli anni 1930, da direttore del casinò), senza considerazioni di opportunità o di semplice prudenza. Molto in carattere.

Pasolini leghista
Il poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di Wikipedia, “apparve nell’aprile del 1954 su «Paragone-Letteratura» e rappresenta la contrapposizione tra la cupa tristezza dell’Agro romano e la limpida luminosità del settentrione”. Il Nord, il cui emblema sono le rondini, è puro e umile e il Meridione è “sporco e splendido”. Con qualche attenuazione, ma alla fine con durezza: “È necessità il capire/ e il fare: il credersi volti/ al meglio”, cercando di lottare nella sofferenza, senza lasciarsi andare alla “rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini - che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini” - “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
Pasolini, è vero,fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese . Il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie, friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli, il premio Crotone, un riconoscimento da lui molto apprezzato, e la sua stessa volontà. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (anche questo articolo ora in “Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo.
La borghesia, in Calabria, “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”.
Pasolini è partito dicendo che il suo reportage dalle coste italiane dell’estate precedente – seimila chilometro in 48 ore per il mensile “Successo” - non ha detto della Calabria, di Cutro in particolare, ciò che ha detto. “Una calunnia”, protesta, “umiliante per i calabresi e ingiusta per me”, che “ha creato uno dei più esasperati equivoci che possano capitare a uno scrittore”. Ma ne pensa, nella bontà, peggio.

Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).

Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.

Sicilia

Jean-Noël Schifano, lo scrittore, si vuole”franco-siciliano”, la memoria del padre riscoprendo con l’età, “muto come tutti i siciliani” - nonchè “italianista di eccellente fama, amico di Moravia, di Morante e di Malaparte, tra i tanti”.
 
Il tramonto è esercizio retorico amato e vastamanente praticato nella Sicilia a ponente, da Palermo a Trapani, Mazara e oltre – di tutti i motivi d’interesse era quello più caldamente consigliato dal vecchio proprietario dell’albergo Sole di Trapani.  Ma che dire di Carducci, “La chiesa di Polenta”: “Una di flauti lenta melodia passa invisibil…. un oblio lene de la faticosa vita, un pensoso\ sospirar quïete, una soave volontà di pianto…”. Il tramonto non distingue.
 
De Amicis ha gli “occhi siciliani”, nel suo ultimo scritto, “Ricordi d’un viaggio in Sicilia, “così profondi, così acutamente scrutatori,così pieni di sentimento e di pensiero, e pur così misteriosi”. Ma, aggiunge, “quando il loro sguardo non è spiegato dalla parola, o animato da una passione determinata”. Allora, non ci può “esser dubbio”. Ma forse si sbagliava, lo sguardo dice di più, e senza dubbio.
 
Però, aggiunge da viaggiatore accorto, quegli occhi sono “l’espressione visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile a definirsi, così vario in sé medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie, di lacune”. Incontournable, si direbbe in francese, irriducibile, inafferrabile.
 
Il siciliano, “disse uno scrittore dell’isola”, annota ancora De Amicis, “pensa e sente come un arabo, agisce come un greco,concepisce la vita come uno spagnuolo”. Cioè?
“Strano carattere”, conclude l’autore di “Cuore”, “violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo scetticismo”. Entusiasta e scettico insieme, per questo ingovernabile?
 
Il “fortissimo sentimento individuale”, trova ancora De Amicis, che altrove “è il più grande propulsore di iniziative”, in Sicilia “produce l’effetto di far curvare l’individuo di fronte all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare la moltitudine a pochi padroni”. E, questo è vero, “di perpetuare lo spirito del feudalismo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi della vita pubblica!”.
 
Garibaldi volle tornare a Palermo nel 1882, invecchiato, incurvato. Fu ricevuto da una folla immensa, e silenziosa. Per “non recargli molestia”, scrissero le cronache. O non era già a lutto? Per Garibaldi?  
 
Non ha posto per Verga. Non da ora. Che fu pure scrittore boulevardier, come da qualche tempo va di moda – e rispettabile (senza gara al confronto coi Notari o i Lucio d’Ambra, perfino con un certo D’Annunzio). E poi forte verista – più “vero” (riuscito) di Zola, che invece la Francia sempre celebra.
Non ne parlano Sciascia e Camilleri, per motivi etnici (provinciali), appesi a Pirandello, a Agrigento – Verga è di Catania. Ma non ne parla il catanese – e boulevardier per eccellenza – Brancati. E non ne parlano i siciliani un po’ apolidi, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Bufalino.


Dei due dirigenti pubblici anti-coronavirus arrestati a Palermo per corruzione, uno, Antonino Candela, il più intraprendente, aveva la scorta, come esponente di punta dell’antimafia, e ha avuto una medaglia d’argento “al Merito della Sanità Pubblica” dal presidente Mattarella. 
Alti due esponenti antimafia sono a processo in Sicilia: la giudice Saguto e l’ex presidente di Confindustria Sicilia Montante. Il fiuto degli affari non manca, ma s’indirizza al peggio per il carattere siciliano o per il carattere dell’antimafia? 


leuzzi@antiit.eu


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