Andreotti o la santità della mediocrità
Trent’anni
fa, gorno più giorno meno, si annotava:
“Elogi a tutto campo a Giulio Andreotti
, abilità, umanità, cultura, sapienza, eccetera, alla presentazione del suo
ultimo libro, “Gli Usa visti da vicino”, da Ugo Stille e Furio Colombo
(Andreotti ha replicato: «Dovrei forse farmi un po’ di autocritica, criticarmi
io stesso, ma abbiamo poco tempo perché devo correre alla Camera»).
“Un po’ incide la captatio benevolentiae del potente. Ma più incide la popolarità del tipo Dc. Stille e Colombo
sono, per la storia personale, anti-Dc, ma a Andreotti si sono prosternati.
“C’è ormai un’identificazione del paese
con la Dc, asta che assuma la faccia arguta di Andreotti, non ci affoghi nella
crisi economica, e nella corruzione, non uccida troppe persone. Scompaiono,
nonché le pretese di riforma, perfino le richieste di buongoverno, o razionale
uso delle risorse, di una politica che non intralci così robustamente il
benessere.
“Forse l’Italia non cambia perché non
vuole cambiare. È un figlio cresciuto che non ha più la voglia, nonché il coraggio,
di fare una sua vita indipendente. È inevitabile, 45 anni sono due generazioni,
l’Italia diversa si fa sempre più rara. Per l’alternativa ci vorrà prima uno
scossone molto forte: crisi economica, scandalo, strage.
“Così, nella palude, Andreotti diventa il
«segnato di Dio», poiché ha potuto fare e disfare con una percentuale di
obbrobrio altissima (80-90 per cento? La
gestione della Difesa negli anni Sessanta, il governo con i missini, Moro… sono
abissi non colmabili). E dimostrarci che non c’è nulla di meglio della
mediocrità. Di più popolare”.
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