Giulietta e Romeo vittime della quarantena
Al momento del piccolo trucco che deve fare la
felicità dei giovani amanti contro gli odi di famiglia, una pozione che mette
in stato di morte apparente per 42 ore, lo stesso frate Lorenzo erborista con
cui Giulietta si è confidata incarica frate Giovanni di recarsi a Mantova, dove
Romeo si trova, per informarlo segretamente. Frate Giovanni, francescano
scalzo, che la regola obbliga ad accompagnarsi a un confratello in ogni trasferta,
ne trova infine uno in un lazzaretto. Se non che i controllori della salute
pubblica lo rinchiudono in quarantena col suo nuovo compagno – lo rinchiudono
fisicamente, inchiodando le porte. Romeo non è avvertito, e la storia d’amore finisce
in tragedia.
Greenblatt, italianista specialista del
Rinascimento, e ora di Shakespeare, nota che la peste accompagnò il Bardo fin
dalla nascita e per tutta la vita. Qualche mese dopo la sua nascita nel 1564,
il registro parrocchiale di Stratford-on-Avon registra un decesso per peste.
Che si ripeterà cronicamente: nel 1582, 1592-93, 1603-04, 1606, e 1608-09.
Ognuna con conseguenze nefaste, se non sulla salute di Shakespeare, sulla sua
attività, d’impresario, autore, e occasionalmente attore: i teatri erano la
prima cosa che a ogni infezione veniva chiusa, per sei, sette, otto mesi. E
tuttavia, nota Greenblatt, la peste non è mai un suo tema. La parola ricorre
con frequenza, nei modi di dire, ma non il fatto.
Il concetto però c’è: la vera “peste”, argomenta
Greenblatt, è figurativa, morale. È Macbeth, il tiranno, e l’ambiente che il
tiranno determina: “Ahimé, povero paese”, lamenta un personaggio. Lamenta
Macbeth descrivendo l’effetto della peste che aveva appena colpito l’Inghilterra
nel 1603-1604, quando Elisabetta I moriva: “Ha quasi paura di sapere di sé. E
non può\ più chiamarsi nostra madre, ma la nostra tomba, dove niente\ se non
chi non sa niente si vede una volta sorridere”.
Stephen Greenblatt, What Shakespeare actually wrote about the Plague, “The New Yorker”,
7 maggio 2020, free online
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