La vicenda di Silvia Romano, l’ultima
di una serie che ha visto cooperanti ostaggio di bande armate, conferma
l’irrilevanza degli aiuti allo sviluppo, anche nella forma umanitaria. Se non
come “aiuti” alle stesse ong e alle altre organizzazioni che se ne occupano –
che “trattano” la cooperazione.
Con un terzo della spesa, lo Stato
farebbe di più e meglio, molto di più e molto meglio, attivando in un congruo numero
di paesi africani uffici consolari in grado di gestire i ricongiungimenti
familiari, e mediare le domande d’immigrazione con le offerte di lavoro in Italia. Evitando
agli africani il tragico e costosissimo nuovo mercato degli schiavi. Ed evitandosi
la periodica invasione di clandestini – oggi 600 mila.
La cooperazione è un’ubbia, forse generosa,
certo perniciosa, di Pannella, che nella finanziaria 1983, governo Spadolini,
ottenne dal Parlamento lo stanziamento di duemila miliardi di lire, oggi raddoppiati, a due miliardi di euro, per la cooperazione allo sviluppo - altri fondi, di ammontare più o meno pari, provengono dalla Unione Europea e dalle agenzie Onu.
Gli aiuti allo svilupo sono un
equivoco che si trascina dagli anni 1960, decretati dalle Nazioni Unite Decade
dello Sviluppo. Ma da tempo si sa, per ampia letteratura, di destra e di
sinistra, che di essa beneficiano i paesi donatori, per merci, servizi e
personale.
Beneficiari sono le stesse ong, per indennità,
retribuzioni, spese, viaggi, mantenimento. Sono loro i percettori reali degli
aiuti, non le popolazioni presso cui operano. Per molti giovani, del tutto
impreparati, gli aiuti sono una vacanza esotica, avventurosa - la notazione sembra
volgare e lo è, ma è la verità della cosa.
Eccetto Emergency nelle zone disastrate
e di guerra, e qualche istituzione missionaria con più cognizione di causa e
meno improvvisazione, che peraltro non fanno capo ai fondi della cooperazione,
poco o niente si salva.
Le minirealizzazioni all’insegna del
volontariato, comunque retribuito, ambulatori, scuola, mensa, non creano né
inducono sviluppo. Rispondono forse all’ego dei cooperanti, alle loro fantasie
e ai loro fondi o problemi psicologici, ma non rispondono a bisogni e non
incidono. Con minore spesa, del resto,
gli stessi bambini o infermi potrebbero essere assistiti in strutture
nazionali, anche italiane.
In Africa la cooperazione è anche risentita
come un’intromissione, seppure compassionevole. Il rapporto che si instaura è
di questo tipo: nel cooperante, anche di esperienza, c’è sotto la francescana solidarietà
la concezione dell’africano alla “Via col vento”, mentre si confronta, in ogni caso e condizione, con persone più
elastiche, mobili, rapide, reattive, intuitive, intelligenti, aggiornatissime, e
quasi sempre più colte. È in uso la retorica della dedizione e la generosità, ma
bisogna aprire gli occhi: i buoni sentimenti vanno rispettati, ma anche l’africano.
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