astolfoCrociate – La storia ne è oggi
riduttiva, del tipo Armata Brancaleone. Sulla scia di Runciman, che lo ha detto
il più grande delitto contro l’umanità,
e dell’antipapismo inglese. Runciman, che nella guerra fu professore a
Istanbul di Arte e Storia bizantina, era stato a Cambridge l’allievo
prediletto, “il primo e solo studente”, del libero pensatore John Bagnel Bury.
Bernardo di Chiaravalle, promotore dei Cistercensi, che fu predicatore
della seconda Crociata, era amico di Pietro il Venerabile, che a Cluny per primo
fece tradurre il “Corano”. Le Crociate vennero a seguito degli interventi
sempre più pressanti del turchi contro l’impero indebolito di Bisanzio. La
seconda fu chiamata dopo i massacri dei cristiani a Edessa.
Ma è vero che, fallendo per le discordie dei capi e capetti cristiani,
perpetrarono come dice Runciman la più grande follia politica del Medioevo: la
distruzione per loro mano dell’impero di Bisanzio, di quel che ne restava,
mentre pretendevano di salvarlo. Aprendo di fatto la strada dell’Europa ai
turchi. Quando Saladino riconquistò Gerusalemme, nel 1187, non vi furono i
saccheggi e i massacri di quando i cristiani l’avevano occupata, ottantotto
anni prima.
L’ultima crociata, chiamata dallo stesso papa, Pio II, il papa umanista,
andò deserta. In Ancona, dove il papa aveva chiamato a raccolta nel 1464 le
forze promesse, da Venezia, la Germania, la Francia, eccetera, non ci trovò
niente – eccetto la morte, per la peste. Alla crociata aveva lavorato a lungo,
dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, per prevenire l’espansione
mussulmana. Di fronte allo scarso interesse, aveva minacciato perfino di
intronizzare Maometto II imperatore romano, facendo circolare una falsa
lettera, in cui lo invitava al battesimo, per favorire l’incoronazione.
Menabrea – Oggi marca nota di
birra, è stato nell’Ottocento, nella persona di Luigi Federico, “uno dei più
grandi scienziati italiani del secolo XIX”, savoiardo di Chambéry, ingegnere, generale,
uomo politico e diplomatico, il quarto o quinto presidente del consiglio del
neonato Stato italiano, uomo di fiducia del re Vittorio Emanuele II, quando la
capitale era a Firenze. Dopo essere stato ministro della Marina e ministro dei
Lavori Pubblici. Infine a lungo ambasciatore a Londra e a Parigi – e da sempre
senatore a vita, per 36 anni, primo conte Menabrea, primo marchese di Valdora.
Fu bravo ingegnere e matematico. A lui si deve la spinta probabilmente decisiva
al computer. Trentatreenne, si era laureato ingegnere a Torino, con dottorato in
matematica applicata. In questa veste Menabrea si ricorda anche come benemerito
iniziatore della scienza dei computer. Avendo per primo capito e sistematizzato
le idee di “macchina analitica” di Charles Babbage, il matematico londinese, da
lui appositamente invitato a esporle a Torino nel 1842. A essa ispirando poi in
via risolutiva lady Augusta Byron, “Ada Lovelace”, che pure era collaboratrice
di Babbage: dalle discussioni con Babbage, Menabrea aveva ricavato un saggio,
pubblicato in francese a Ginevra, che si considera il primo lavoro scientifico
nel campo dell’informatica, “Notions sur la machine analytique de Charles
Babbage”. Il saggio fu tradotto in inglese e arricchito da Ada Lovelace.
Ma Menabrea fu anche quello che impaludò l’Italia unita nell’orrido di
Assab, e due questioni sociali aprì poi rimaste più o meno irrisolte: la
questione meridionale e quella sociale – l’Italia riducendo alla dubbia
aristocrazia sabauda e agli affaristi profittatori della manomorta
ecclesiastica . Esponente della Destra storica, presiedette governi di destra
incondizionata, uno di essi tutto settentrionale – con il quale progettò di
confinare in Patagonia i “briganti” postunitari, convinto che “il sano terrorismo
di Minghetti”, uno dei suoi predecessori, andasse rafforzato. Impose la tassa
sul macinato, per colmare il debito contratto con l’infelice guerra del 1866 –
nei tumulti popolari che ne seguirono si esercitò alla repressione, con 250
morti e un migliaio di feriti, il giovane generale Raffaele Cadorna. Si deve a
lui anche Assab: il colonialismo sterile, e la rovina – una delle rovine –
dell’Italia ai suoi primi passi come nazione.
La
storia del colonialismo impervio – più che straccione (l’Italia spese molto
nelle colonie) – avviato da Menabrea è così sintetizzata in Astolfo, “Non c’è anarchico felice”:
“La prima volta avvenne a
opera di Giuseppe Sapeto di Carcare, in provincia di Savona, che prima a
Cavour, inascoltato, poi a Vittorio Emanuele II propose i calanchi roventi di
Assab, avamposto di Adua. Per gli etiopici indifferentemente gesuita,
cappuccino, spia, Sapeto era stato lazzarista,
membro cioè della Congregazione delle missioni apostoliche, fondata da
san Vincenzo de’ Paoli nel 1625, prima di spretarsi nella foia climaterica dei
cinquant’anni, e diventare via via agente francese in Dancalia, curatore dei
manoscritti orientali alla Biblioteca Nazionale di Parigi, successore di
Michele Amari, professore di arabo a Firenze, in forza di un «Viaggio e missione cattolica
fra i Mensa, i Bogos e gli Habab», col quale, missionario a Cheren, aveva
tramandato minuziose annotazioni etnografiche, agente di Rubattino nel mar
Rosso. In tre settimane in Siria nel 1837 si era fatto ordinare dal vicario
apostolico Jean-Baptiste Auvergne suddiacono, diacono, prete. Nel 1838 aveva
già fondato una missione a Massaua, a ventisette anni. Precursore e mentore di
Giustino de Jacobis di San Fele di Avellino, il santo vincenziano che aprì la
religione e la chiesa al clero africano. Ma la sua passione era geopolitica,
per la quale importunava i potenti, “con pertinacia sovrumana” dicono i
biografi: la regina Vittoria, Gregorio XVI, Luigi Filippo, Pio IX, Napoleone
III. Papa Gregorio mandò una campana. Erano anni di sede vacante, l’ultimo abuna,
Cirillo, era morto nel 1828 avvelenato dal re del Tigré Sabagadis, e non si
trovavano i diecimila talleri da pagarsi al patriarca d’Alessandria per
l’unzione del nuovo abuna. Finché gli inglesi fecero nominare Abba Andreas, un sensale
di schiavi della suburra del Cairo, battezzato, ma di scuola coranica, e infine
monaco copto, che si chiamò abuna Salama.
“Sapeto
puntò sulla Francia, oltre che su Torino, alla quale fece promettere dallo sbandato
Negussié la baia di Adulis e l’isola di Dissee. Negussié, nipote ventiseienne
di Ubié, il ras del Tigré spodestato dal famoso Kassai, il Napoleone
d’Abissinia, che si era fatto incoronare Teodoro II, si aspettava dalla Francia
un esercito, e sparì quando arrivò una nave senza armamento. I francesi non si
persero d’animo, e comprarono Obok, che sarà Gibuti, per diecimila talleri di
Maria Teresa da un altro capo locale. Che sparì pure lui, ma questa volta il capitano
di fregata conte Stanislas Russel, l’inviato di Napoleone III, piantò la
bandiera.
“Al
giovane Negussiè già Sapeto aveva portato nel 1859 da parte del re di Sardegna
un trattato commerciale e il riconoscimento di re dell’Etiopia – di cui non c’è
traccia nelle carte di Cavour, ma il re potrebbe aver supplito. Cavour l’Africa
la discuteva con Antonio Rizzo, un palermitano che con la sua gentile signora
Santina si era installato comodo sull’altopiano dell’Asmara, da dove scriveva
al conte invoglianti missive – ma il paradiso, intervallato da carcerazioni e
riscatti, durò solo sette anni, nel 1861 Rizzo morì a Torino poco dopo il
conte. Dopo l’acquisto francese della costa pietrificata e le ambe impervie di
Obok, Sapeto non ebbe requie finché non portò l’Italia a Assab, calcinata dal
sole e dall’umidità.
“Successe
all’inaugurazione del canale di Suez il 16 novembre 1869. Per la quale del
resto anche Verdi immagina il paradiso in Etiopia, attorno alla principessa
Aida. Una delle tante missive dell’ex missionario ebbe risposta: il presidente
del consiglio Luigi Federico Menabrea lo incaricò di acquistare uno scalo sul
mar Rosso, preferibilmente all’ingresso meridionale, lo stretto di Bab El
Mandeb, pur chiamandolo Sepeto, e affiancandogli il contrammiraglio Guglielmo
Acton, ex napoletano, con uno stanziamento di centomila lire, quattordicimila
talleri. Era il 12 ottobre 1869. Lo stretto era già preso, Aden era britannica
e Gibuti francese. Sapeto e Acton risalirono la costa della Dancalia e, dove
nessuno poteva vederli, comprarono un pezzo di costa dai fratelli Ibrahim e
Hassan ben Ahmed per cinquemila talleri. La metà dei francesi, un affare. Era
il fatidico 16 novembre. Al ritorno Acton trovò a Alessandria la nomina a ministro
della Marina nel gabinetto Lanza, che si formava a Firenze.
“Sapeto
invece dovette giustificarsi, non molti nel nuovo governo apprezzarono, e
s’inventò che Assab era la porta del Tigré, cioè dell’Etiopia, dov’erano
stipati e disponibili “avori e pelli, zibetto, muschio, oro, incenso”, cioè i
tesori dei Magi e della regina di Saba, nonché “caffè, sale, droghe,
granaglie”. Nacque la favola delle ricchezze dell’Etiopia, gli esploratori
hanno sempre dovuto inventarsele. Dopo il Perù, dopo l’oro e l’argento, i
tesori non si trovavano, e i selvaggi dei gesuiti potevano giustamente
ribattere nelle loro lettere: “Se siamo così poveri e selvaggi come dicono, che
vengono a cercare da noi?”. Il papa a un certo punto aveva
bloccato queste lettere – i gesuiti paragonavano le storie dei selvaggi
canadesi a quelle di Tito Livio - ma non aveva fatto trovare più oro.
“Il
casalese Giovanni Lanza, capo delle destra, preparava l’occupazione di Roma, e
non voleva indisporre l’Europa con imprese esotiche. A marzo inviò Sapeto, col
marchese Orazio Antinori in abito da esploratore, sulla «Vedetta», un avviso militare, a piantare
il tricolore a Assab a titolo privato, a nome dell’armatore Rubattino. Una
cautela che non bastò: il khedivé d’Egitto, informato dai francesi, e invidioso
dei talleri che i capi dancali s’intascavano vendendo le sue terre, ancorché
aride, mandò a rimuovere le insegne italiane. Sapeto allertò Bixio, che alla
Camera chiese l’occupazione militare di Assab. Il governo se la cavò con una
commissione di studio, e l’incarico al conte Ottavio Lovera di Maria, che farà
carriera come prefetto di Catania, e al generale Ezio De Vecchi di visitare Assab
e sondare il khedivé. Gli inviati ne fecero un quadro orrido, e gli esperti
poterono sconsigliare la creazione di colonie, fossero pure penali – Sapeto
aveva ripiegato su “qualcosa tipo Cajenna”. Ma non finì lì.
“Per un
decennio Assab fu dimenticata. Poi il Parlamento abolì la sovvenzione alla
linea Genova-Alessandria per la tratta fino ai porti siriani, e Sapeto riemerse
con la proposta di ristabilirla per la tratta fino a Assab. Fino al nulla cioè,
ma si trattava solo di passare dei soldi a Raffaele Rubattino, benemerito di
Garibaldi. L’Italia seppe, per la facondia di Ferdinando Martini, di un’Affrica
toscaneggiante, liberale, manzoniana. Il garibaldino Giuseppe Maria Giulietti,
esploratore, convinse il ministro degli Esteri Agostino Depretis. E sotto il
governo di Benedetto Cairoli, altrimenti attendista, si diede pronto avvio alla
fine. Sapeto riemerge in Africa in qualità di agente di Rubattino e il 15 marzo
1880 acquista tutta la baia di Assab, 36 miglia di lunghezza per 2-6 di
profondità, 630 km. quadrati, per 23.600 talleri. Un paio di tenenti di
vascello diranno con Giulietti che Assab è la leva per la conquista del Tigrè,
e il più è fatto: l’Etiopia, un paese che parla ottanta lingue, si penserà di
conquistarla con un battaglione. Al comando di Oreste Barattieri, un altro
garibaldino.
“Sapeto, il 25 agosto 1895, avendo apprestato
il necessario per la fine dell’Italia qualche mese dopo a Adua, morirà
contento. Il prezzo di Assab rappresenta il più grosso boom immobiliare della storia: solo quarant’anni prima i britannici
si erano presi Aden, che vale molto di più, per dieci sacchi di riso.
L’infausta Assab conta ancora oggi, dopo tutto il colonialismo, diciassette
abitanti”
Pola – Aveva nell’inverno 1946-1947, quando gli italiani ne furono espulsi, 35 mila abitanti. Di cui trentamila erano italiani.
L’Istria
nell’insieme aveva la metà della popolazione, esattamente il 50 per cento,
italiana. Nella costa, italiana all’80 per cento, e nell’area retrostante. I croati,
e la piccola minoranza slovena, abitavano le aree interne.
Ruggero Zangrandi – Da tempo dimenticato,
fu l’autore nel 1962 del “Lungo viaggio attraverso il fascismo”, bestseller
Feltrinelli. Un’opera anch’essa dimenticata benché utile. Da comunista, scrittore
de “l’Unità” e “Paese sera”, Zangrandi vi ricordava come tutti gli intellettuali
della sua generazione, praticamente tutti gli intellettuali del dopoguerra, erano
stati fascisti negli anni 1930.
Zangrandi nei primi anni Trenta era stato compagno di scuola di Vittorio Mussolini,
pur essendo di quasi un anno maggiore. La stessa che frequentarono Carlo
Cassola e Mario Alicata, di tre anni più giovani. Col quindicenne Cassola e con
Vittorio Mussolini fondò nel 1933 il movimento Novismo, antifuturista. Che
pubblicò anche un “Manifesto”, cui seguirono polemiche. “Ci
proponevamo di affrontare problemi filosofici e ideologici di ogni sorta,
discettavamo intorno alla pace, all'ordine sociale e internazionale, alla
questione religiosa (eravamo ferocemente anticlericali), a quella sessuale,
ecc.”, racconterà nella sua ricostruzione. Le riunioni si tenevano a casa dei
genitori di Cassola: “Dalle prime adunate tenute in casa mia si era passati
alle riunioni semiclandestine nella cantina di Carlo Cassola, in via Clitunno a
Roma: un simbolo o, forse, la suggestione delle società carbonare, cui
cominciavamo a ispirarci”. Il gruppo evolvette presto senza volerlo su
posizioni antifasciste, avendo deciso di “avvicinarsi alla classe operaia”,
come ricorda ancora lo stesso Zangrandi: “Avevamo sedici o diciassette anni
quando una inconscia smania di conoscere da vicino «i fratelli oppressi», di legarci
con loro per una «rivolta sociale» che non aveva ancora, per noi, definizione
politica ci spingeva ad andarli a cercare. Pietro Gadola, Carlo Cassola, Enzo
Molajoni (non più Vittorio Mussolini, che si era ritirato dal gruppo, n.d.r.) e
io ci vestivamo a quel tempo dei nostri abiti più malandati e, con la barba
incolta e i capelli in disordine, ci avventuravamo per i quartieri popolari di
Roma, a tarda sera. Entravamo nelle osterie, nei luoghi più abbietti, timorosi
e schifati. Ci capitava di imbatterci in gente strana, che la nostra fantasia,
nutrita di letture russe, coloriva subito di nichilismo”.
astofo@antiit.eu
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