La “casa dell’ebreo”, contrassegno italico
Una raccolta di saggi di storia pisana, di cui
Luzzati è specialista. Attorno ad alcuni documenti ed eventi concernenti gli
ebrei in Toscana, a Pisa, nel Quattro-Cinquecento. Storie tutte di fortuna, legata alla fenerazione
– al prestito a interesse. Di ebrei romani, che convennero a Pisa dapprima
attratti dalle condizioni di favore offerte, quando a metà Trecento la
repubblica marinara in disarmo provò a rilanciarsi con i commerci. E poi,
quando Pisa passò sotto Firenze (commissario politico delle truppe fiorentine
era Machiavelli), dalle concessioni medicee. Di Cosimo su spinta della moglie
Eleonora de Toledo, la figlia del viceré di Napoli, che era stata educata da
donna Bienvenida Abravanel, esponente di un casato ebraico di progenie
iberica, che annoverava statisti e pensatori – Bienvenida era cognata di Leone
Ebreo.
Pisa era stata a lungo terminale per i commerci
con l’Oriente. Fra le tante vicende della repubblica marinara Luzzati ricorda l’arrivo
a Pisa ai primi dell’801 di due messi del califfo Harun-el-Rashid, quello delle
“Mille e una notte”, per Carlo Magno, che si trovava a Pavia, e di uno dell’emiro
di Tunisi, el-Abbasiya. In risposta all’invio da parte di Carlo Magno quattro
anni prima di tre suoi ambasciatori. Uno dei quali, Issac Iudeus, stava per
tornare, via Africa - sarebbe sbarcato a settembre a Portovenere con un
elefante, dono del califfo al primo imperatore dei Romani, al quale riuscirà a
recapitarlo vivo, nel luglio 802, ad Aquisgrana.
Undici saggi di storia locale. Di fortune
ebraiche alterne. Ma non più della precarietà dell’epoca – e degli affari, che per
natura sono mobili. Quando Cosimo nel 1570 adottò, per avvicinarsi a Roma, al
papato, il ghetto che papa Paolo IV aveva instaurato nel 1556, il provvedimento
fu applicato anche a Pisa. Cioè, non fu applicato: i Da Pisa, i Leucci, e le
altre famgilie di fortuna continuarono le loro attività senza restrizioni.
Qualcuno anche spostandosi su Firenze, per accrescere il volume degli affari.
Una raccolta disintossicante. La storia degli
ebrei in Italia, da qualche tempo minata dalle diffidenze, è la storia dell’“unico
gruppo non cristiano cui sia stato consentito vivere tra i cristiani”. Con
limitazioni inferiori che altrove. E, prima e dopo il ghetto, non di
isolamento. Senza contare, come Cases racconta nelle “Memorie di un
ottuagenario”, il suo bisavolo, rabbino di Reggio nell’Emilia, che protestò con
Napoleone Primo Console per l’abolizione del ghetto: quelle leggi che volevano
tutti eguali senza distinzione di razza e senza ghetti, sostenendo, intaccavano
la sua identità di buon ebreo.
Nei due ultimi saggi della raccolta, Luzzatti
evidenzia che, “all’insegna della pazienza, della prudenza e della cautela, e
non senza errori di calcolo o prospettiva”, gli ebrei in Italia hanno sempre
mantenuto un loro spazio. Con una limitazione, nota allargando lo sguardo su tutta
la penisola: di tenere limitata la presenza. Che quindi si trova diffusa
in Italia in tutte le comunità, ma in nessuna con nuclei consistenti. Da qui il
titolo: la “casa del’Ebreo” era il nucleo attorno a cui si raccoglievano le minuscole
rappresentanze ebraiche così disseminate, paesane o cittadine. La casa del “prestatore”,
l’ebreo per antonomasia.
Michele Luzzatti, La casa dell’Ebreo, Nistri Lischi, pp. 317 € 20
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