Come ridere al tempo della peste? No – tra l’altro
non c’era peste nel 1532, al tempo dei due Capitoli. Le “pesti” sono il
capriccio di questo scrittore che a rileggerlo sembra l’italiano vero, e forse per
questo è trascurato.
Berni passa
per poeta giocoso. Specialista dei giochi (equivoci) verbali. E satirico.
Delle buone maniere letterarie del primo Cinquecento, il petrarchismo bembiano –
“chiome d’argento fino, irte e attorte”.... Nonché della corruzione, ai suoi anni
senza paragoni, né prima né dopo. Ma raramente lo è -–o giusto per l’organo
maschile, i capitoli dei “ghiozzi”, delle “anguille”, dei “cardi . E in subordine, all’invettiva,
al malaugurio, all’ira. Senza un criterio, non religioso, non morale, e nemmeno
letterario o linguistico. Non c’è con chi non ce l’abbia: le puttane, le mogli,
papa Adriano, il suo ragazzo, l’Aretino, gli abati, qualche vescovo, i preti. Senza un criterio, né religioso né
morale. Mentre elogia, con la peste, i “bravi” poi manzoniani, e i papi e i
cardinali simoniaci. Di tutto facendo un’arma, perfino dell’omossessualità, che
agita contro l’aborrita procreazione – senza privarsi di farne materia di
sberleffo.
Berni è poeta irridente, fino alla crudeltà, e anche
cattivo, astioso. Forse perché inerme, e inoffensivo: si ritiene inerme di
fronte all’altrui cattiveria, ma per ciò stesso, per quando sbraiti, resta
inoffensivo, non considerato, gregge, massa, il sorite o mucchio indistinto e inutile – il problema dell’Italia
politica, l’impasse inconturnabile, l’impossibilità
di “fare gli italiani”, è tutto qui: caratteriologico, o dell’anarchismo
insoddisfatto, per natura insoddisfatto. Ma non si perde una battuta.
Francesco Berni, Rime burlesche, Bur, remainders, p. 277 € 4
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