Per un anno, dal dicembre 1664 al dicembre 1665
(con una coda nel 1666), l’unico rumore di Londra fu il grido dei monatti:
“Portate fuori vostri morti!”. I morti
di peste. Che si diffuse d’un colpo, senza possibilità di prevenzione, e fece
100 mila morti (ufficialmente 68.596), un quinto della popolazione. Senza
rimedio possibile: “Le peste sfidava ogni medicina, gli stessi medici che se ne
occupavano e i dirigenti che prescrivevano cosa fare cadevano morti, distrutti
proprio dal morbo che dicevano agli altri di combattere”.
L’epidemia crebbe con la primavera e l’estate,
e prese a scemare solo in autunno, dopo otto-nove mesi di terrore. La città fu
zona rossa, isolata, non si poteva entrarvi né uscirne. Solo il re, Carlo II,
la corte, il Parlamento e i tribunali poterono trasferirsi fuori, a Oxford - la
città restò governata dal sindaco. Ma, di fatto, chi poteva scappare, avendo
casa o famiglia altrove, scappò. Tutto come oggi: quarantene, distanziamento,
sepolture a due metri di profondità, lavacri, per lo più inutili.
Un caso di peste bubbonica, il penultimo in
Europa, o uno degli ultimi: si manifestava con i bubboni nei linfonodi - alle
asclle, all’inguine e al collo – e con febbre, mal di testa, vomito. Poi siamo
passati, con la “spagnola” un secolo fa, e con le varie epidemia che hanno
contrassegnato questo inizio di millennio, alla peste polmonare, che uccide per
asfissia, e si propaga attraverso starnuti, tosse, respiro umido, o per
contatto, se i germi si sono depositati su una superficie.
Scritto cinquant’anni dopo, nel 1722, il
“Diario” è una lettura non catartica nel lockdown,
con i morti a centinaia. E nemmeno allettante, quale sarà stata sicuramente in
altro momento – Defoe è narratore irresistibile, è quello del settecento pagine
di “Robinson Crusoe”, dell’uomo solo nell’isola, che fu un bestseller transatlantico, il primo della storia. L’isolamento, nell’incertezza,
non ne trae beneficio, nemmeno pedagogico, didascalico. Nella disgrazia si
preferisce non pensarci?
I pregi tuttavia sono lì. Il “Diario” fu una
delle quattro o cinque pubblicazioni scritte in fretta per sfruttare il
successo straordinario del “Robinson Crusoe” nel 1719. La peste sembrò un buon
argomento, di largo interesse. Già nel 1720, subito dopo il “Robinson”, Defoe
aveva messo su un “Due Preparations for the Plague”, sulla peste in corso a
Marsiglia. E il racconto va veloce
È un racconto, non una storia. Da parte di un
H.F., che sarebbe Henry Foe, zio di Daniel, trentasette anni nell’anno della
peste – Daniel ne aveva cinque: un sellaio, che a un certo punto mette in scena
un fratello commerciante da poco tornato dal Portogallo. Un racconto di cose
viste che in realtà sono per sentito dire. Quindi, si direbbe in tribunale,
poco o nulla attendibili. E invece è una vera storia – non ce n’è un’altra
altrettanto esaustiva dello stesso evento. È la chiave, il segreto, di Defoe,
scrittore tardo e per caso, commerciante fallito due volte, carcerato per
debiti, perseguitato dai creditori, ma da qualche tempo, da whig, cioè liberale, passato al servizio
di un conservatore per scrivere il suo giornale, giornalista attivissimo, che
tutto controlla di prima mano, onesto. Veridico nel racconto, che tutto fa
sembrare di prima mano, con la caratteristica capacità di rappresentazione,
d’immedesimarsi, lui prima del lettore, negli eventi.
C’è il conto dei morti, periodico. L’esposizione
delle misure anticontagio, della Corte, del governo, delle parrocchie. Ci sono furti,
una forma d’incontinenza, e qualche violenza, ma non disordini. La cronaca è
punteggiata di aneddoti. Il giovane pifferaio addormentato sul carretto, che si
ritrova coperto da un ammasso di morti. Una folla di donne che ruba cappelli
dal magazzino del fratello del narratore. Uno che chiude accurato casa e va a
dormire-morire su un letto sopra il pub, dopo l’ultima birra.
Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot pp.198 €17.50
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