martedì 5 maggio 2020

La peste è noiosa

Per un anno, dal dicembre 1664 al dicembre 1665 (con una coda nel 1666), l’unico rumore di Londra fu il grido dei monatti: “Portate fuori  vostri morti!”. I morti di peste. Che si diffuse d’un colpo, senza possibilità di prevenzione, e fece 100 mila morti (ufficialmente 68.596), un quinto della popolazione. Senza rimedio possibile: “Le peste sfidava ogni medicina, gli stessi medici che se ne occupavano e i dirigenti che prescrivevano cosa fare cadevano morti, distrutti proprio dal morbo che dicevano agli altri di combattere”.
L’epidemia crebbe con la primavera e l’estate, e prese a scemare solo in autunno, dopo otto-nove mesi di terrore. La città fu zona rossa, isolata, non si poteva entrarvi né uscirne. Solo il re, Carlo II, la corte, il Parlamento e i tribunali poterono trasferirsi fuori, a Oxford - la città restò governata dal sindaco. Ma, di fatto, chi poteva scappare, avendo casa o famiglia altrove, scappò. Tutto come oggi: quarantene, distanziamento, sepolture a due metri di profondità, lavacri, per lo più inutili.
Un caso di peste bubbonica, il penultimo in Europa, o uno degli ultimi: si manifestava con i bubboni nei linfonodi - alle asclle, all’inguine e al collo – e con febbre, mal di testa, vomito. Poi siamo passati, con la “spagnola” un secolo fa, e con le varie epidemia che hanno contrassegnato questo inizio di millennio, alla peste polmonare, che uccide per asfissia, e si propaga attraverso starnuti, tosse, respiro umido, o per contatto, se i germi si sono depositati su una superficie.
Scritto cinquant’anni dopo, nel 1722, il “Diario” è una lettura non catartica nel lockdown, con i morti a centinaia. E nemmeno allettante, quale sarà stata sicuramente in altro momento – Defoe è narratore irresistibile, è quello del settecento pagine di “Robinson Crusoe”, dell’uomo solo nell’isola, che fu un bestseller transatlantico, il primo della storia. L’isolamento, nell’incertezza, non ne trae beneficio, nemmeno pedagogico, didascalico. Nella disgrazia si preferisce non pensarci?
I pregi tuttavia sono lì. Il “Diario” fu una delle quattro o cinque pubblicazioni scritte in fretta per sfruttare il successo straordinario del “Robinson Crusoe” nel 1719. La peste sembrò un buon argomento, di largo interesse. Già nel 1720, subito dopo il “Robinson”, Defoe aveva messo su un “Due Preparations for the Plague”, sulla peste in corso a Marsiglia. E il racconto va veloce
È un racconto, non una storia. Da parte di un H.F., che sarebbe Henry Foe, zio di Daniel, trentasette anni nell’anno della peste – Daniel ne aveva cinque: un sellaio, che a un certo punto mette in scena un fratello commerciante da poco tornato dal Portogallo. Un racconto di cose viste che in realtà sono per sentito dire. Quindi, si direbbe in tribunale, poco o nulla attendibili. E invece è una vera storia – non ce n’è un’altra altrettanto esaustiva dello stesso evento. È la chiave, il segreto, di Defoe, scrittore tardo e per caso, commerciante fallito due volte, carcerato per debiti, perseguitato dai creditori, ma da qualche tempo, da whig, cioè liberale, passato al servizio di un conservatore per scrivere il suo giornale, giornalista attivissimo, che tutto controlla di prima mano, onesto. Veridico nel racconto, che tutto fa sembrare di prima mano, con la caratteristica capacità di rappresentazione, d’immedesimarsi, lui prima del lettore, negli eventi.
C’è il conto dei morti, periodico. L’esposizione delle misure anticontagio, della Corte, del governo, delle parrocchie. Ci sono furti, una forma d’incontinenza, e qualche violenza, ma non disordini. La cronaca è punteggiata di aneddoti. Il giovane pifferaio addormentato sul carretto, che si ritrova coperto da un ammasso di morti. Una folla di donne che ruba cappelli dal magazzino del fratello del narratore. Uno che chiude accurato casa e va a dormire-morire su un letto sopra il pub, dopo l’ultima birra.

Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot pp.198  €17.50



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