La Cina è l’eldorado degli affari. Ha continuato
a esserlo perfino nella pandemia, vendendo ogni sorta di attrezzatura parafarmaceutica.
È una sorta di cornucopia. Per affaristi anche di mezza tacca - il virus ne ha
fatto emergere uno spaccato: basta una ditta di import-export, anche in nome
proprio, e un indirizzo cinese (in Cina
non c’è carenza di mediatori) per montare in poche ore un affare milionario. E per ogni più onesto produttore: chi non
vorrebbe poter vendere in un mercato come quello cinese, immenso, e anche ricco?
Ma più probabile è che la nuova crisi
del lavoro – e del reddito – dopo le chiusure forzate di ogni attività in
Occidente proponga una qualche forma di redistribuzione mondiale della “catene
di produzione” mondiali – cioè asiatiche. Ottocento milioni di persone, non contando
la Russia, non possono continuare nell’impoverimento progressivo: l’impoverimento,
relativo e anche in assoluto, potrebbe essere stato precipitato dal coronavirus
nell’insostenibilità. Anche se larghi settori di affari di ogni tipo ci prospera.
In Italia, cinque milioni di poveri in
qualche modo sono stati affrontati, dopo i due-tre milioni di licenziamenti degli anni 1990. Ma dieci milioni non sono una prospettiva
sostenibile. Né un bambino su cinque denutrito in Gran Bretagna. L’economia degli affari finisce per non essere più un’economia, ma
un imbuto che risucchia.
La globalizzazione ha avuto sinora
effetti moltiplicativi, in un quadro globale. Gli artefici della globalizzazione – gli Stati
Uniti anni 1980 – ci rimettono sempre più globalmente.
Anche se grossi e potenti settori ancora ci prosperano, specie le banche d’affari.
Ci sarà, è necessaria, una nuova divisione del lavoro, con Trump e senza Trump.
In Europa il problema è confuso, come
tutto. Ma è chiaro in Gran Bretagna, che per questo si è smarcata dalla
confusione europea. E nella stessa Germania che conta, a partire da Volkswagen,
che pure ha in Cina il suo maggiore mercato singolo – ma non il più
profittevole. Il programma di von der Leyen, di emancipare l’Europa dalle “catene
di valore” cinesi per il digitale e l’ambiente andava già in quella direzione,
prima del virus. Lo statu quo ha
interessi robusti, ma è solo ovvio prevedere che anche l’Europa si collocherà
sulla linea americana, che s’impersona in Trump, ma continuerà anche senza.
Al pettine la “rivoluzione” di trent’anni
fa, con l’outsourcing e la
delocalizzazione. Non paga più. L’outsourcing
ha indebolito i servizi al limite del’inefficienza e quindi del costo. La
delocalizzazione sottrae risorse nel complesso e non le incrementa. Se non per
gruppi ristretti, e per tutti in fase discendente – quando non è integrata in
un mercato unico, a vasi comunicanti. Cioè, paga anche molto, ma pochi. Ma poi,
alla sommatoria, impoverendo i più, indebolisce tutti, anche i profittatori: chi
comprerà le loro merci (chi potrà comprarle)? La Cina supplisce ma non è “il”
mercato: è un mercato aperto ma controllato – non un mercato libero.
Una rinegoziazione dei termini di scambio,
come l’ha pretesa Trump, può aiutare. Ma un accordo è difficile da ipotizzare. La
Cina è brillante ma non elastica come si mostra. È un pachiderma politico, con
un processo decisionale lento, e soggetto ad aggiustamenti imprevedibili – la cosa
meno conosciuta è il Partito Comunista Cinese, che pure in teoria governa il
mondo.
Il riallineamento porterà all’inflazione?
In fondo, questa è la sola carta cinese: il costo del lavoro minimo e quasi
nullo. Le lavorazioni riportate in Occidente saranno quindi più care. Ma non
più care di quanto l’Occidente le paga adesso, seppure all’insaputa delle
statistiche - quando le ragioni di scambio sono ineguali. E comunque non nei
servizi: energia, comunicazioni, servizi all’impresa e alla persona non sono
mai state così cari, e inefficienti – si veda la sanità.
(continua)
(continua)
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