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Scalfari, o dell’inquieta felicità
Il protagonista ha l’età dell’autore. Che lo
segue, nell’infanzia tormentosa, nell’adolescenza, poi in guerra, a El Alamein
nientemeno, e nel dopoguerra capitano d’industria, onesto per quanto può. Di
temperamento oblomoviano, se non per le decisioni obbligate. Di pochi o scarsi
affetti, confusi. La storia scandendo per grandi blocchi, il più sostanzioso
naturalmente è il dopoguerra, della “crescita”, fino al terrorismo. Che non
intacca la solidità su cui il personaggio si adagia – la semplicità, della cosa
giusta da fare – ma ne accentua l’isolamento, per quanto orgoglioso.
Già pubblicato con Rizzoli, nel 2001, dopo il ritiro
della gestione di “Repubblica, prima delle prove filosofiche e le incursioni poetiche,
il romanzo di Scalfari sembra un’esplorazione dei propri mezzi. Partendo da
mademoiselle de Scudéry, “la noia si porta nel cuore e per non annoiarsi mai
bisogna sfuggire se stessi”, e quindi dal lezioso, un po’ saccente. Finendo con
“I sepolcri”, ma per chi sa, con un
accenno minimo: “Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,\ ultima Dea, fugge i
sepolcri”. Le generazione del dopoguerra, industriosa e costruttiva, si perde
alla maturità, negli anni 1980, tra la corruzione e il terrore. Scalfari la
guarda da remoto, prossimo ottuagenario, lui stesso poco felice – poco sicuro
della sua felicità.
Il protagonista sa “di possedere
contemporaneamente molte personalità, anzi d’esserne posseduto”. E avrà una
vita – il romanzo – pessoviana, di “affollata solitudine”. Con una propensione marcata per il ménage à trois - in Scalfari, più che
nel personaggio – come in Goethe (strane coincidenze rivelano letture
occasionali, n.d.r.): la co-protagonista ne ha visione fuggevole, alla
penultima pagina, di “tre persone su tre collinette disposte a triangolo”. Affollata
di personaggi dal vero, riconoscibili sotto i nomi di fantasia: Tibaldi-Mattioli,
il banchiere scanzonato e risolutivo, il “de Breteil” presidente di
Confindustria, produttore di bretelle (Alighiero De Micheli), il primo centro-sinistra,
quello vero delle riforme, la Montecatini, poi Montecatini-Edison, infine le
Generali, al centro degli affari per due lunghe decadi. Con originali, esclusive,
attaches calabresi: in un paio di personaggi,
nei peperoni verdi “berretta”, e
nell’uso del dialetto, una novità nella narrativa italiana - reminiscenza dei
due anni che Scalfari passò a Vibo, per evitare la possibile epurazione del padre,
funzionario pubblico, e la penuria alimentare.
Un romanzo sconclusionato. Scalfari le prova
tutte, anche la battaglia al secondo capitolo, come il Fabrizio di Stendhal –
rifà Alamein, in dettaglio: un’esercitazione sulle tante ricostruzioni che ne
sono state fatte. Gli amori non amori, per reticenza, per sfortuna. Gli affari che
vanno bene e vanno male per asserita razionalità – mentre si sa che vanno a caso.
Il racconto di una vita felice – l’intermezzo calabrese la sintetizza. La madre
sognata. Gli affari buoni. Gli amori quanto basta.
Un Eugenio divertito e divertente – come avrebbe voluto essere, scanzonato – “calabrese”? “Anche tu stai diventando vecchio”, scrive il pigmalione americano in un lettera-testamento dal buen retiro in Missouri dove si è ritirato a pescare all’ex giovane capo azienda per il quale ha lavorato, “hai una bella famiglia, sei potente e rispettato.Per essere felice ti è mancata la cosa più importante: la capacità di amare e di ricevere amore”. Sic transit gloria mundi è la chiusa del romanzo, un altro capriccio di Scalfari?
Eugenio Scalfari, La ruga sulla fronte, Einaudi, pp. 281 € 11,50
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