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venerdì 29 maggio 2020

Trevi resuscita Rocco Carbone e Pia Pera

La vita felice e infelice di Rocco Carbone e Pia Pera, morti anzitempo, scrittori e amici di una vita di Trevi, che ne celebra il ricordo. Una trenodia – “la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti”. Vigile più che appassionata. Ma nei toni del lamento funebre, che l’elegia mescola al rimprovero – la morte è risentita come un abbandono. 
Amicizie di molti anni, con frequentazioni quotidiane, personali, epistolari, telefoniche, messaggistiche. Per alcuni anni a tre, con incursioni nello studio fotografico di Marco Delogu a Trastevere, per molti anni bilaterali. Con incomprensioni e interruzioni, come in tutti i rapporti senza riserve. Su cui Trevi torna quindi con una forte dose di rimpianto – il ricordo porta inevitabili alle sliding doors, al come avrebbe potuto essere. Ma anche di impegno a ricostituire le personalità presto dimenticate di Carbone e Pia Pera.
L’affetto si doppia di un (involontario?) risarcimento letterario, da editor, il critico letterario dei nostri giorni. Per personali e svelte che siano, le anamnesi di Trevi sulle opere dei due amici si leggono come un tempo le critiche discorsive di Edmund Wilson  - e si completano con un indice delle opere dei due scrittori e dei commenti più approfonditi. “Le Furie che lo braccavano da quando era al mondo”, così si apre il ricordo di Rocco, “fra tregue e nuovi assalti, prosperavano nel manierismo, nella complicazione, nell’incertezza dei segni e dei loro significati”.
Personaggi complessi, come tutti. Carbone, semiologo affermato nei suoi anni venti, quindi romanziere, uno che scala in fretta l’olimpo editoriale, da Theoria a Feltrinelli e a Mondadori, ma sempre insoddisfatto, infine vittima di una crisi maniacale, da cui si riprende facendo l’insegnante  in carcere. Pia, che esordisce col rifacimento di “Lolita” visto da lei, vivamente sconsigliato da Trevi, inciampando in una causa rovinosa di Dmitri Nabokov, il figlio, sacrifica presto la scrittura - che Trevi apprezza soprattutto nelle traduzioni dal russo, dell’“Oneghin” e di Lermontov - al giardinaggio. La flora la appassiona e ne diventa un’autorità, ma Trevi non sa accettare la rinuncia. In più punti le oppone l’ultimo scritto, la breve cronaca della malattia degenerativa che la porta a morire a sessant’anni, dal memorabile esordio: “Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo”.
Pia, nota Trevi, ha fatto il cammino inverso di Čechov, che a un amico scriveva: “Credo che se non avessi fatto lo scrittore, avrei potuto diventare giardiniere”. Da scrittrice, studiata, limata, perfezionista, si è fatta giardiniera – coltivatrice di specie spontanee, invece che creatrice. Una compagnia riposante. Rocco, bio classica, da scrittore maudit, compresa la morte, a 46 anni a Roma per un incidente col motorino, oppone invece più di una resistenza a Trevi. Che si arrabbia: “Artista del risentimento”, lo dice a un certo punto, e autore di “cupissimi libri” – “non era mai contento di nulla”, “un campione del risentimento cosmico”. Anche se la frequentazione fu quotidiana per un quarto di secolo, con un solo lungo estraniamento. Quasi coetanei, Rocco del 1962, Trevi del 1964 - Pia era di qualche anno più avanti. E calabresi: Trevi, romano, soltanto per parte di madre, e nel ricordo di “Natali e Pasque” ed estati in Calabria, anche con Rocco. Mentre Rocco, che era di casa anche con i familiari di Trevi, faceva da loro una sosta “per spezzare il viaggio da Roma a Reggio”, era cresciuto a Cosoleto, dove la mamma era la maestra, e il padre sarà sindaco.

La Calabria resta estranea a Trevi, che forse per questo non trova il capo del filo. Cosoleto, ai piedi dell’Aspromonte, è un paese di mille persone. Comprese le frazioni di Sitizano (probabilmente più popolosa) e di Acquaro, santuario di grandissima devozione, ma solo un giorno l’anno, per la festa di san Rocco. Affacciato sul Tirreno, distante molti tornanti. Una radura su un costone, tra avvallamenti densi e monotoni di altissimi ulivi. Rocco è inquieto (ambizioso e incerto), suscettibilissimo, e pieno di rimorsi, come solo può esserlo il figlio di una mamma calabrese – la “mamma” alvariana di cui non si parla, la Medea divorante.
Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza, p. 131 € 12,50 


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