Trevi resuscita Rocco Carbone e Pia Pera
La vita felice e infelice di Rocco Carbone e
Pia Pera, morti anzitempo, scrittori e amici di una vita di Trevi, che ne
celebra il ricordo. Una trenodia – “la scrittura è un mezzo singolarmente buono
per evocare i morti”. Vigile più che appassionata. Ma nei toni del lamento
funebre, che l’elegia mescola al rimprovero – la morte è risentita come un
abbandono.
Amicizie di molti anni, con frequentazioni
quotidiane, personali, epistolari, telefoniche, messaggistiche. Per alcuni anni
a tre, con incursioni nello studio fotografico di Marco Delogu a Trastevere,
per molti anni bilaterali. Con incomprensioni e interruzioni, come in tutti i
rapporti senza riserve. Su cui Trevi torna quindi con una forte dose di
rimpianto – il ricordo porta inevitabili alle sliding doors, al come avrebbe potuto essere. Ma anche di impegno a
ricostituire le personalità presto dimenticate di Carbone e Pia Pera.
L’affetto si doppia di un (involontario?)
risarcimento letterario, da editor,
il critico letterario dei nostri giorni. Per personali e svelte che siano, le
anamnesi di Trevi sulle opere dei due amici si leggono come un tempo le
critiche discorsive di Edmund Wilson - e
si completano con un indice delle opere dei due scrittori e dei commenti più
approfonditi. “Le Furie che lo braccavano da quando era al mondo”, così si apre
il ricordo di Rocco, “fra tregue e nuovi assalti, prosperavano nel manierismo,
nella complicazione, nell’incertezza dei segni e dei loro significati”.
Personaggi complessi, come tutti. Carbone,
semiologo affermato nei suoi anni venti, quindi romanziere, uno che scala in
fretta l’olimpo editoriale, da Theoria a Feltrinelli e a Mondadori, ma sempre
insoddisfatto, infine vittima di una
crisi maniacale, da cui si riprende facendo l’insegnante in carcere. Pia, che esordisce col
rifacimento di “Lolita” visto da lei, vivamente sconsigliato da Trevi,
inciampando in una causa rovinosa di Dmitri Nabokov, il figlio, sacrifica
presto la scrittura - che Trevi apprezza soprattutto nelle traduzioni dal
russo, dell’“Oneghin” e di Lermontov - al giardinaggio. La flora la appassiona
e ne diventa un’autorità, ma Trevi non sa accettare la rinuncia. In più punti
le oppone l’ultimo scritto, la breve cronaca della malattia degenerativa che la
porta a morire a sessant’anni, dal memorabile esordio: “Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo
che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo”.
Pia, nota Trevi, ha fatto il cammino inverso di
Čechov, che a un amico
scriveva: “Credo che se non avessi fatto lo scrittore, avrei potuto diventare
giardiniere”. Da scrittrice, studiata, limata, perfezionista, si è fatta
giardiniera – coltivatrice di specie spontanee, invece che creatrice. Una compagnia
riposante. Rocco, bio classica, da scrittore maudit, compresa la morte, a 46 anni a Roma per un incidente col
motorino, oppone invece più di una resistenza a Trevi. Che si arrabbia:
“Artista del risentimento”, lo dice a un certo punto, e autore di “cupissimi
libri” – “non era mai contento di nulla”, “un campione del risentimento
cosmico”. Anche se la frequentazione fu quotidiana per un quarto di secolo, con
un solo lungo estraniamento. Quasi coetanei, Rocco del 1962, Trevi del 1964 -
Pia era di qualche anno più avanti. E calabresi: Trevi, romano, soltanto per
parte di madre, e nel ricordo di “Natali e Pasque” ed estati in Calabria, anche
con Rocco. Mentre Rocco, che era di casa anche con i familiari di Trevi, faceva da loro
una sosta “per spezzare il viaggio da Roma a Reggio”, era cresciuto a
Cosoleto, dove la mamma era la maestra, e il padre sarà sindaco.
La Calabria resta estranea a Trevi, che forse per questo non trova il capo del filo. Cosoleto, ai piedi dell’Aspromonte, è un paese
di mille persone. Comprese le frazioni di Sitizano (probabilmente più popolosa)
e di Acquaro, santuario di grandissima devozione, ma solo un giorno l’anno, per
la festa di san Rocco. Affacciato sul Tirreno, distante molti tornanti. Una
radura su un costone, tra avvallamenti densi e monotoni di altissimi ulivi.
Rocco è inquieto (ambizioso e incerto), suscettibilissimo, e pieno di rimorsi,
come solo può esserlo il figlio di una mamma calabrese – la “mamma” alvariana
di cui non si parla, la Medea divorante.
Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza, p. 131 € 12,50
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