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Trump non è Hitler
Docente a Yale di diritto Internazionale, storico
e analista dei diritti civili e della storia del secondo Novecento, Moyn parte dall’evidente assunto che “Trump
non è Hitler”, per sradicare il vezzo dell’informazione, e anche della politica, e di una parte della della storia accademica, di configurare il presente nei termini del passato.
E, peggio, di un passato fortemente caratterizzato.
Il ricorso è facile,
ammonisce, ma a costo di non vedere il predente. Nel caso di Trump “il
paragone col nazismo e il fascismo che starebbero minacciando di abbattere tra
poco la democrazia distrae da come abbiamo creato il fenomeno Trump da decadi,
e implica che la coesistenza della nostra democrazia con lunghe storie di
assassinio, asservimento, e terrore -
incluse le recentissime, anche se mitigate, forme di incarcerazione di massa e
di crescenti ineguaglianze all’interno del paese – non merita tanto allarme e
obbrobrio”. Hitler assolve anche dal vedere il male.
Gli anni di Trump sono stati i più fertili di
teorie complottistiche, spiega ancora Moyn. E cioè, all’evidenza, di fughe dalla
realtà.
La rivista pubblica, in forma di intervista,
una sintesi del libro in via di pubblicazione, sui problemi che pone, all’annalista
e allo storico, il vezzo di schiacciare la contemporaneità su modelli di
richiamo. Che è dei media, ma anche di un filone storiografico: Moyn scrive in
polemica con altri accademici, che ultimamente si sono espressi a favore dell’analogia
storica.
Ma più Moyn insiste sulla non positività, o
presa politica, elettorale, della critica a Trump. Fra i tanti passi falsi contesta
quello di Alexandra Ocosio-Cortez, la parlamentare di New York, sempre del
campo democratico-progressista, che riporta la politica anti-immigrazione di
Trump allo sterminio tedesco degli ebrei nella seconda guerra mondiale.
Al fondo, una tela emerge: dei diritti civili
usati quale arma. Nelle “guerre di liberazione” a cavaliere di Fine Millennio,
nel Kossovo, in Afghanistan. in Iraq, in Libia.
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