Il popolo dei mingong, migranti poveri in Cina
Cos’ha
deciso la terza sessione del tredicesimo Congresso Nazionale Popolare cinese
l’ultima settimana di maggio? Non si sa. La materie erano importanti: il
coronavirus, la recessione, il rapporto con gli Stati Uniti, Hong Kong. Ma
nessuna decisione è stata comunicata. Forse non è stata presa: il Congresso è
solo la cinghia di trasmissione del partito Comunista Cinese, un organo di pura
rappresentanza. È la non piccola anomalia del paese che molti in Italia e in
Europa già considerano guida. Perché fa e promette affari, con larghezza – ce
n’è per tutti. Poco importa che lo faccia anche con durezza.
I
problemi si può solo provare a ipotizzarli da quello che si sa della Cina oggi, anche se poco.
Unanimità nel confronto con gli Stati Uniti, con un senso di sfida. E un
difficile rilancio dopo il lockdown.
Sul rilancio della produzione, per attutirne il crollo, Pechino fa ancora
sicuro affidamento sulle “catene di valore” mondiale di cui è riuscita –
capitali pubblici e privati insieme - a fare perno sulla Cina. Ma con un punto specifico cinese:
l’assistenza, se non il salvataggio - per i mesi di non-lavoro e di mancati introiti vitali - dei lavoratori migranti interrni, mingong, che in Cina cono un’enormità,
290 milioni, e sono classificati come “lavoratori a basso reddito”. Quasi
tutti, l’85 per cento del totale, senza assicurazioni sociali. E fuori anche
dall’assistenza locale ai poveri, perché il cambio di residenza è scoraggiato
dalle leggi malgrado l’ingigantirsi delle migrazioni interne – la Cina è una
grande Italia degli anni 1950-1960.
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