venerdì 12 giugno 2020

Il popolo dei mingong, migranti poveri in Cina

Cos’ha deciso la terza sessione del tredicesimo Congresso Nazionale Popolare cinese l’ultima settimana di maggio? Non si sa. La materie erano importanti: il coronavirus, la recessione, il rapporto con gli Stati Uniti, Hong Kong. Ma nessuna decisione è stata comunicata. Forse non è stata presa: il Congresso è solo la cinghia di trasmissione del partito Comunista Cinese, un organo di pura rappresentanza. È la non piccola anomalia del paese che molti in Italia e in Europa già considerano guida. Perché fa e promette affari, con larghezza – ce n’è per tutti. Poco importa che lo faccia anche con durezza.
I problemi si può solo provare a ipotizzarli da quello che si sa della Cina oggi, anche se poco. Unanimità nel confronto con gli Stati Uniti, con un senso di sfida. E un difficile rilancio dopo il lockdown
Sul rilancio della produzione, per attutirne il crollo, Pechino fa ancora sicuro affidamento sulle “catene di valore” mondiale di cui è riuscita – capitali pubblici e privati insieme - a fare perno sulla Cina.  Ma con un punto specifico cinese: l’assistenza, se non il salvataggio - per i mesi di non-lavoro e di mancati introiti vitali - dei lavoratori migranti interrni, mingong, che in Cina cono un’enormità, 290 milioni, e sono classificati come “lavoratori a basso reddito”. Quasi tutti, l’85 per cento del totale, senza assicurazioni sociali. E fuori anche dall’assistenza locale ai poveri, perché il cambio di residenza è scoraggiato dalle leggi malgrado l’ingigantirsi delle migrazioni interne – la Cina è una grande Italia degli anni 1950-1960. 


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