Secondi pensieri - 422
zeulig
Amore - Dice bene Lou Salomé, l’amore
dura finché ognuno resta se stesso. Finché cioè non si adatta, anche se per
convenienza, di buona volontà, timorosamente, non si uniforma. Ma le differenze
agiscono dolorosamente. Tanto più in tre stanze - quando non in due. Senza più
l’osteria di rincalzo, o il bar, il biliardo, le quattro chiacchiere con gli
amici, ma casa e lavoro, lavoro e casa, invariabili, monotoni.
Non
ha più spazio.
Ereignis – Concetto centrale
in tutti gli stadi di Heidegger, è così repertoriato dallo stesso, in “Il
principio di identità” (in “Identità e differenza”), p.44: “La parola Ereignis, “evento”, è tratta dal tedesco
ormai formato. Originariamente er-eignen significa
er-äugen, ossia scorgere (erblicken), chiamare a sé nel guardare,
fare proprio, (en-eignen). Ora,
pensata in base alla cosa indicata, la parola Ereignis, “evento”, deve parlare come parola-guida al servizio del
pensiero. In quanto parola-guida così pensata essa è intraducibile al pari
della parola-guida greca λόγος o della parola cinese tao”.
E ancora: “La parola Ereignis,
«evento», qui non intende più ciò che solitamente definiamo come un qualsiasi
avvenimento, un fatto che accade. La parola è utilizzata ora come singulare tantum, nome invariabile”. Ciò
che essa nomina avviene soltanto al singolare, anzi, qui non si ha nemmeno più
a che fare con un numero, ma con qualcosa di unico”. Un miracolo - intendendo peraltro dire semplicemente: ciò che ci riguarda.
Heidegger - Alla fine, si
potrebbe anche dire di Heidegger come di uno che provò a rinnovare il
vocabolario, con esiti incerti, senza più? Il “Vocabolario Heidegger”, o
dell’indefinitezza.
Diventato
famoso, per lungo tempo, grazie a Hitler dopo la sconfitta di Hitler – a una
sconfitta, cioè, non digerita.
Kant – È un altro in Simone Weil, che
“Kant conduce alla grazia”, dice, la filosofia porta alla religione: “Kant vi
porta segnando i limiti della ragione, che non produce ciò che pensa, ma lo
riceve”, con i suoi cento talleri possibili che nulla aggiungono ai cento
talleri reali. Il reale è il possibile, certo, anche di noi desideranti, ma il
contrario è pure vero: “Lo stesso per Dio”. L’intelligenza serve a ripulire
l’ambiente dei falsi dei: il falso Dio che somiglia in tutto al vero, eccetto
che non lo si tocca, impedisce per sempre di accedere al vero. Alla nostra
verità, non del Dio astratto.
Minoranze – Nella nuova
dottrina dei diritti universali, dell’eguaglianza e quindi della protezione del
più debole, sono totalitarie e irriconoscenti. Questo è di ogni movimento
rivoluzionario, o di affermazione dei diritti, ma qui perspiscuamente,
incongruamente, nel nome della minorità-minoranza.
È normale se non giusto. Nella fase dell’affermazione,
rivoluzionaria, e anche dopo, del consolidamento. Ma allora non più nel nome
dell’eguaglianza, se questa è acquisita, bensì nella deriva politica
inevitabile verso l’autoaffermazione senza limiti, in mancanza di contrappesi.
Tendenza a cui la minoranza sembra portata inevitabilmente, pretenziosa,
distruttiva, germinativa, per gemmazione si direbbe, per partenogenesi. Una
società aperta che subito si fa chiusa, perfino ottusa (anonima, meccanica), e
di una sola opinione, irriflessa, all’insegna del “tutto subito”. Provocando
inevitabile un movimento di bascula – quello che si semplifica come destra e
sinistra.
È la caratteristica (limite) che
fa dell’immigrazione un problema: la minoranza si vuole divergente e non
convergente. L’irriconoscenza (l’insoddisfazione) è perfino dichiarata nei
movimenti migratori, la non integrazione. Che si impongono – con la forza del
bisogno, e dell’obbligo di carità - ma non si integrano. Se non in un quadro
piramidale, o di scala di apprezzamento, tra le varie destinazioni – con gli
Stati Uniti alla cuspide. E quindi con una riserva. Contro il mondo di cui stanno
beneficiando, benché per la prima e ancora unica volta, se non in esclusiva –
se non ci sono alternative.
Il somalo e il sikh si acconciano
all’Italia, ma dopo che non hanno potuto raggiungere la Germania e la Gran
Bretagna, dopo averci tentato con gli Statu Uniti. Arabi, Indiani, Iraniani,
Africani, anche gli Ebrei nel dopoguerra, tutti i popoli in fuga da sé sempre agli Usa guardano – pretendono al
meglio È il ragionamento che la Libia
faceva, la Libia di Gheddafi, che i suoi studenti mandava alle università
americane, a migliaia ogni anno, pagando rette salatissime: “L’Europa non
esiste, dunque gli Usa”. Lo stesso poi,
su altra scala, l’Iran degli ayatollah.
Musica – Porta all’astrazione.
È risaputo che Prokof’ev, pur essendo pieno del tempo, un uomo del tempo, nel
1917 si astrasse nella sua dacia nei
dintorni di Pietroburgo, “in assoluta solitudine”, a leggere Kant e comporre la
sua sinfonia “classica”, Haydn inseguendo e Mozart, senza le incrostazioni di
Beethoven. Mentre il popolo al fronte si ribellava e nelle città ribolliva la
rivoluzione. Analogamente Richard Strauss, nell’estate del 1942, mentre Hitler
gioiosamente suicidava la Germania nelle steppe, si dilettava a musicare
“Capriccio”, la storia in cui l’abate Casti discute del primato, nel
melodramma, della parola o della musica.
Nietzsche
–
Un parodista, magari senza volerlo (saperlo)? Ritorna – ciclica – l’ipotesi che
Nietzsche si divertisse e intendesse divertire – improbabile, ma l’ermeneutica
è improbabile. Ritorna con una “custode delle memorie”, Babette Babich, la
filosofa americana del “New Nietzsche”, di “Nietzsche e la scienza”, e dei “New
Nietzsches Studies” (“Nietzsche and Kant” è uno dei numeri, “Nietzsche and the
Jews” un altro), che insegna alla Fordham, l’università gesuita di New York, in
“Incipit parödie. Nietzsches Empedokles/Zarathustra. Zwischen Lukians uperanthropos und Nietzsches
Űbermensch”. Tra Empedocle, l’eterno ritorno, e Luciano, il superuomo. Un
esercizio più ampio, questo della nietzscheologa americana, riportando in gioco
l’eterno ritorno oltre al superuomo - la novità dei quattro volumi di “Così
parlò Zarathustra”.
Ma in tema di parodia la novità è
relativa: era già materia nel 1995 da Robert Gooding-Williams, lo studioso
afro-americano di W.H.DuBois, in “Zarathustra’s Descent: Incipit tragoedia.
Incipit parodia”. E prima ancora del poligrafo Sander Gilman – da noi
conosciuto per le controversie dell’ebraismo, “Il mito dell’intelligenza
ebraica”, 2007, e per le curiosità, “La strana storia dell’obesità”, 2008, e
“La storia del fumo”, 2009, ma già autore di “Conversations with Nietzsche: A
Life in the Words of his Contemporaries”, 1991 - in “Nietzschean Parody”, 1976, e “Incipit
Parodia: the function of Parody in the
lyrical Poetry of Friedrich Nietzsche”, 1975 .
Non una novità, insomma. Prima
ancora Klossowski, “Nietzsche, il politeismo e la parodia”, vi si era
esercitato nel 1958, a proposito della parte prima del lirico trattato, della
nozione di superuomo che vi entra nel gergo nietzscheano: come se “superuomo”
fosse una maniera per dire l’inconsistenza e l’inconseguenza della riflessione
al tempo di Nietzsche, positivista.
Lo stesso Nietzsche suggerisce
che “incipit tragoedia” si potrebbe leggere “incipit parodia”. Gooding-Williams
ha argomentato che quello che Nietzsche suggerisce – o il suo scritto comunque
porta a concludere - è che “Zarathustra” non è “soltanto una tragedia ma anche
una parodia del Neoplatonismo e una lettura paolina della Bibbia”.
Streit – Quello degli
storici tedeschi negli anni 1980, quello delle Facoltà all’epoca di Kant,
sempre in Germania, più che contesa o controversia indica difficoltà, spiega
Heidegger avviando la conferenza “La struttura onto-teo-logica della
metafisica” (in “Identità e differenza”, 53): “La parola tedesca Streit (in antico alto-tedesco strit), “contesa”, non significa in
primo luogo la discordia, bensì l’angustia”.
zeulig@antiit.eu
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