Il Novecento, secondo
Novecento, non è onorevole. Anche il primo Novecento, col fascismo, ma fece
meno danni. Nel secondo Novecento bisognava essere del Pci, e usare il suo
linguaggio di pietra, altrimenti si era scomunicati. Si poteva vivere, nelle
lettere e al cinema, ma a disagio. Ma non era facile nello stesso Pci: si poteva stare nel partito Comunista ed
essere perseguitati. Giacomo Debenedetti, per esempio, che per l’“Unità” eseguì
alcuni killeraggi, famoso quello di Corrado Alvaro, che accusò di fascismo per
“L’uomo è breve”, romanzo antitotalitario, fu bocciato per non essere abbastanza
diligente al concorso a cattedra da Sapegno, altro emerito esponente del
Partito, e restò precario a vita - fu bocciato tre volte, l’ultima prima di
morire, a 66 anni (Sapegno ne pronunciò poi l’elogio funebre: l’ultima
cortesia-ipocrisia fra torinesi…).
Ce
n’è traccia nel “romanzo” di Debenedetti – “l’insieme dei quaderni del
professore universitario dl 1961 al 1968” (Onofri)? Il romanzo del primo
Novecento, del secondo c’è solo Moravia? Purtroppo sì. Il centinaio abbondante
di pagine su Tozzi, per un revival in chiave neo-realistica. O il centinaio di
pagine su Serra, il “lettore di romanzi”, che leggeva Pirandello come Luciano
Zuccoli, Carola Prosperi e Virgilio Brocchi – e “nonostante il panorama sciatto
che mediocremente emerge dalle Lettere”,
Onofri: una fuga tangenziale. “Tozzi e Kafka”? “Pasternak e Moravia”? “Joyce e
Proust” sì, “la memoria involontaria”. Mentre di Svevo già sapevamo. E di
Pirandello, non amato: secondo a Tozzi, nella modernizzazione del Novecento.
La
presentazione di Montale, letta oggi, dice altro. Di Debenedetti apprezzando “le
due drammatiche cronache (Otto ebrei
e 16 ottobre 1943)” e “il Debenedetti
narratore: i racconti Amedeo e Suor Virginia”.
Come critico, “leggendolo ho pensato
tante volte a Borgese”, dice il fine Nobel. Borgese che era stato “il primo
grande interprete ed editore di Tozzi”, ricorda Onofri, in altra temperie
culturale e in altra direzione critica.
Mario
Andreose, in questa riedizione, ricorda Debenedetti nel lavoro editoriale, al
Saggiatore – rimemorandone anche lui “lo stile critico narrativo” - di Tozzi
salvando il salvabile con un avvicinamento a Franz Marc, pittore animalier”. Massimo Onofri, altro
contributo originale, lo situa nella critica letteraria del Novecento, comunque
un gigante tra gli altri – il “nostro più grande critico del Novecento” secondo Contini, comunque il più assiduo.
Andreose
alla fine ricorda che Debenedetti morì solo, nel “declino della casa editrice”,
e sotto la “rivoluzione culturale” del Sessantotto. Ma non soltanto: “Nel
frattempo gli avevano già incredibilmente voltato le spalle l’ex amico editore
(Alberto Mondadori, n.d.r.), l’università italiana, e il Partito comunista che
riteneva la sua prosa inadatta per i suoi organi di stampa” – la casa editrice
Einaudi compresa.
Un
volumone in confronto costante con Borgese , più che con Cecchi – o con Croce. La
pubblicazione degli ultimi corsi monografici universitari, quest il cuore del “Romanzo”,
voluta subito dalla vedova Renata, risarcisce Debenedetti sul piano accademico.
Ma i limiti dell’epoca rimangono – altro vigore e intuito nelle serie di “Saggi
critici”, di varie epoche.
Fa simpatia, e un po’ pena, vedere
il genio letterario impancato a fustigare il capitalismo, di cui non ha nozione,
in nome di non sa che cosa. Ma di più ne fa in quanto si piega a un’esigenza
che non solo non è sua, ma probabilmente sente vacua, di routine.
Resta da dire di Tozzi, che
Debenedetti ha scoperto “invece” di Borgese, che fu il primo a dare credito allo
scrittore senese ma mettendolo nella squadra dei realisti, alla Zola, alla
Verga. Niente di questo, spiega Debenedetti. Ma non c’è nel “Romanzo” il saggio
tozziano “Con gli occhi chiusi”, uscito su “Aut Aut” n. 78, nov. 1963 e ripreso
nel 1970 nella raccolta Saggiatore “Il personaggio-uomo”. Con il “pezzo” più
riuscito, quello della bistecca di Svevo, con la quale Debenedetti fa in poche
righe il paradigma della sua repulsione del naturalismo-verismo – anche se,
contrariamente a Svevo, l’aneddoto riporta a prova del naturalismo come arte
borghese, capitalistica: “Un noto epigramma di Svevo, cinico solo in apparenza,
dice: «Non è tanto che io goda di mangiarmi la bistecca, quanto del fatto che
io la mangio e gli altri no». L’arte naturalista postulava un pubblico di
mangiatori di bistecche”.
Resta
un personaggio, oltre che un critico, di forte spessore, fin dalla biografia.
Che attende ancora un’adeguata ricollocazione critica, anche biografica.
“Giacomino” per “molti, molti amici cari”, che però non se ne occupano –
eccetto Walter Pedullà, che però è un allievo, della non amata Messina, e non
un amico riconosciuto.
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, La Nave di
Teseo, pp.658, ril. € 25
La presentazione di Montale, letta oggi, dice altro. Di Debenedetti apprezzando “le due drammatiche cronache (Otto ebrei e 16 ottobre 1943)” e “il Debenedetti narratore: i racconti Amedeo e Suor Virginia”. Come critico, “leggendolo ho pensato tante volte a Borgese”, dice il fine Nobel. Borgese che era stato “il primo grande interprete ed editore di Tozzi”, ricorda Onofri, in altra temperie culturale e in altra direzione critica.
Mario Andreose, in questa riedizione, ricorda Debenedetti nel lavoro editoriale, al Saggiatore – rimemorandone anche lui “lo stile critico narrativo” - di Tozzi salvando il salvabile con un avvicinamento a Franz Marc, pittore animalier”. Massimo Onofri, altro contributo originale, lo situa nella critica letteraria del Novecento, comunque un gigante tra gli altri – il “nostro più grande critico del Novecento” secondo Contini, comunque il più assiduo.
Andreose alla fine ricorda che Debenedetti morì solo, nel “declino della casa editrice”, e sotto la “rivoluzione culturale” del Sessantotto. Ma non soltanto: “Nel frattempo gli avevano già incredibilmente voltato le spalle l’ex amico editore (Alberto Mondadori, n.d.r.), l’università italiana, e il Partito comunista che riteneva la sua prosa inadatta per i suoi organi di stampa” – la casa editrice Einaudi compresa.
Un volumone in confronto costante con Borgese , più che con Cecchi – o con Croce. La pubblicazione degli ultimi corsi monografici universitari, quest il cuore del “Romanzo”, voluta subito dalla vedova Renata, risarcisce Debenedetti sul piano accademico. Ma i limiti dell’epoca rimangono – altro vigore e intuito nelle serie di “Saggi critici”, di varie epoche.
Fa simpatia, e un po’ pena, vedere il genio letterario impancato a fustigare il capitalismo, di cui non ha nozione, in nome di non sa che cosa. Ma di più ne fa in quanto si piega a un’esigenza che non solo non è sua, ma probabilmente sente vacua, di routine.
Resta da dire di Tozzi, che Debenedetti ha scoperto “invece” di Borgese, che fu il primo a dare credito allo scrittore senese ma mettendolo nella squadra dei realisti, alla Zola, alla Verga. Niente di questo, spiega Debenedetti. Ma non c’è nel “Romanzo” il saggio tozziano “Con gli occhi chiusi”, uscito su “Aut Aut” n. 78, nov. 1963 e ripreso nel 1970 nella raccolta Saggiatore “Il personaggio-uomo”. Con il “pezzo” più riuscito, quello della bistecca di Svevo, con la quale Debenedetti fa in poche righe il paradigma della sua repulsione del naturalismo-verismo – anche se, contrariamente a Svevo, l’aneddoto riporta a prova del naturalismo come arte borghese, capitalistica: “Un noto epigramma di Svevo, cinico solo in apparenza, dice: «Non è tanto che io goda di mangiarmi la bistecca, quanto del fatto che io la mangio e gli altri no». L’arte naturalista postulava un pubblico di mangiatori di bistecche”.
Resta un personaggio, oltre che un critico, di forte spessore, fin dalla biografia. Che attende ancora un’adeguata ricollocazione critica, anche biografica. “Giacomino” per “molti, molti amici cari”, che però non se ne occupano – eccetto Walter Pedullà, che però è un allievo, della non amata Messina, e non un amico riconosciuto.
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, La Nave di Teseo, pp.658, ril. € 25
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