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Napoli col sorriso
“I napoletani muoiono sempre di
qualcosa”. O: “Solo da pochi decenni si è scoperto che, a Napoli, d’inverno fa
freddo”. A Napoli, dove c’è già un “dispositivo cerimoniale” (Derrida è dunque
un copione, e senza la cerimonialità?), molto prima del dpi, dispositivo di
protezione individuale, che la melopea
del coronavirus ha inventato – la mascherina, per intendersi, i guanti di gomma
e il gel. Una scorribanda linguistica, e comportamentale, nella Napoli tra le
due guerre, la prima età dell’autore, dettagliata, documentata, per ridere, che
riletta fa già storia del costume, remoto – il cambiamento va oggi di fretta,
anche se di segno incerto.
La vita di Napoli Pazzaglia autore
comico vede tutta una comica, un teatro. Il lettore ci trova quello si aspetta
da “Napoli”, ma anche molto di più. Il primo mobile radio, alto due metri. La
visita di regalo per l’onomastico. O “il serio pericolo di possedere una penna
stilografica”. Il “femminella”. La “zoccola”. Il Rione Sanità e la funzione
comunicativa del “paniere”. “Mi piange il cuore”. “Abbiamo già dato”. “Romanzo
con troppi protagonisti” Pazzaglia sottotitola il libro, ma è un repertorio della Napoli che fu, quale
era. Prolifico autore di farse, e di sceneggiature, da ultimo personaggio tv
(della congrega simpatica di Arbore), Pazzaglia ha memoria minuta della vita
minuta dei suoi primi venti anni, di prima e dopo la guerra. Nel vicolo, nel
rione, in casa, in chiesa, in case che sono spesso ex monasteri (la
nazionalizzazione massonioca postunitaria che subito indignò, nel 1862, il
patriota Pasquale Villari).
Una carrellata deliziosa, benché
di repertorio, e preziosa già per la filologia, ma malinconica. Come sempre
avviene peraltro ai napoletani in esilio. O a tutti gli esiliati, ma i napoletani sono in più gran numero e hanno
più cose da raccontare, tra sensi di colpa e bisogno di (ri)vendicarsi, di se
stessi e di chi li ospita.
Riccardo Pazzaglia, Partenopeo in esilio
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