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“Non posso respirare” al tempo di Obama
“Non posso respirare” è un classico, dal tempo
di Obama. Di un nero robusto che però soffoca, stretto nella “presa” della polizia,
e muore dopo avere ripetutamente - undici volte nel primo caso, di Eric Garner
il 17 luglio 2014 - dato l’avvertimento fatale. Sotto l’obiettivo di passanti o
degli stessi poliziotti, in entrambi i casi, testimoni passivi.
Il video della
fine di Garner è nitido, sonoro compreso, come quello della fine di Floyd. L’unica
differenza è il luogo: New York nel 2014, e l’affollamento di poliziotti, per il
caso di un ciccione nero sospettato di vendere sigarette sfuse, che nega ripetutamente - una dozzina s’intravedono
nel video della fine di Garner, più un dirigente in abiti civili che quando
Garner cessa di rantolare allontana i passanti.
Con un precedente, ancora a New York, seppure
non reale, che merita citare. Moriva strangolato da un poliziotto per primo il
protagonista di “Fa’ la cosa giusta”, il film di Spike Lee, una trentina d’anni
fa.
“The New Yorker” ripubblica l’articolo che
Jelani Cobb, obamiano (già autore di un’apologia, “The Substance of Hope: Barack
Obama and the Paradox of Progress”, 2010), scrisse il 4 dicembre del 2014 per
stigmatizzare la mancata reazione del primo presidente nero all’assassinio di Garner.
Così come aveva fatto per altri neri prima di Garner, due giovanissimi, anche loro indifesi, disarmati, e senza imputazioni
specifiche, uccisi uno da una specie di guardia giurata e uno dalla polizia.
Obama si era limitato a “chiedere pazienza”. Sia al momento degli assassinii
sia quando, ai relativi processi, tutti gli accusati erano stati assolti.
L’articolo di Cobb è in punto di diritto. Se è
lecita, come i difensori dei poliziotti e le giurie popolari avevano
argomentato, la presunzione di colpa per via del colore. Del “profilo razziale”.
Per cui la colpa presunta è della vittima se appartiene a una “razza” il cui profilo
razziale è pericoloso, mentre la presunzione d’innocenza va all’assassino se di
profilo razziale non pericoloso. La colpa è a priori, della criminalità nera, e
non della brutalità della polizia. Un obbrobrio giuridico, è evidente. Che,
argomenta Cobb, Obama patrocina con intenti di pacificazione. Ma l’effetto è
che, “anche eliminando gli omicidi a opera dei neri, gli Stati Uniti avrebbero comunque
una popolazione più violenta delle
democrazie occidentali come la Gran Bretagna, il Canada e l’Australia”.
L’assassinio a freddo di un nero da parte della
polizia in America non è una novità. Era parte del linciaggio, anche a opera di
civili, che la legge non perseguiva, per tutto l’Ottocento, anche dopo la guerra
civile, e fino ai primi del Novecento. Nella forma specifica, di un nero non armato
e non in flagranza di reato ucciso dalla polizia, ha avuto due precedenti negli
anni di Obama, di Eric Garner il 17 luglio 2012, e di Trayvon Martin, il 26
febbraio 2012, e un terzo precedente sotto la presidenza di Bush jr., quello di
Sean Bell, alla vigilia del matrimonio, il 25 novembre 2006 – sul cui processo,
nel 2008, durante la sua prima campagna presidenziale, Obama chiese di
sorvolare.
Anche Bell è stato ucciso dalla polizia
di New York. A 22 anni, da tre agenti in borghese, due dei quali afroamericani,
a colpi di pistola, benché fosse disarmato. All’uscita dal locale dove aveva
festeggiato l’addio al celibato. Insieme con due amici, anch’essi colpiti dagli
agenti ma sopravvissuti.
Garner è morto come George Floyd. Stessa età,
43 anni Garner, 46 Floyd. Stessa imputazione, minima: smercio di sigarette
sfuse per Garner, spaccio di una banconota falsa per Floyd, una baconota da 20 dollari dal tabaccaio per
le sigarette. Stessa “presa” per il collo, per immobilizzare gli indiziati,
fatale, mentre lamentavano di non riuscire a respirare.
Trayvon Martin, 17 anni, stava andando a
trovare la fidanzata del padre, e fu sparato senza motivo. Non dalla polizia, da
uno Zimmermann della ronda di quartiere. Che poi è stato assolto due volte, sia
per l’assassinio sia per la violazione dei diritti civili (razzismo).
Sono stati assolti anche i poliziotti del caso Garner
e del caso Bell.
Jelani Cobb, No Such Thing as Racial Profiling, “The New Yorker”, 3 giugno 2020
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