Il teatro “impossibile” di Savinio. Impossibile
da rappresentare, come il curatore Alessandro Tinterri spiega con la
corrispondenza e le recensioni in appendice. Benché “Alcesti” abbia avuto la
prima al Piccolo di Milano, Strehler alla regia, 1950, e sia stato in
cartellone per un paio di settimane, addirittura, di repliche, ma col pubblico
e i critici divisi.
Un’idea geniale, nata da un triste aneddoto che
Savinio ha già raccontato in varie sedi, “Il Tempo”, “La Lettura”, “La Fiera
Letteraria”, “Corriere d’informazione”, e ha ripreso in “Sorte dell’Europa”,
1945. Assistendo alle prove del
“Wozzeck” di Alban Berg al teatro dell’Opera di Roma nell’autunno del 1942, ha
notato in sala uno sconosciuto che attira la sua attenzione, in quanto “carico
di fato”. Roman Vlad gli ha spiegato che è un editore di musica di Vienna,
editore anche del “Wozzeck”, sposato a un’ebrea, la quale all’inasprirsi
dell’antisemitismo si è uccisa per non danneggiare il marito.
Un gancio formidabile. Che il classicista
Savinio trasla automaticamente nel racconto mitico di Alcesti, la moglie che
sola seppe immolarsi per salvare il marito. Un precedente commovente,
energizzante – Alcesti è la sola donna eroica nella sterminata mitologia greca,
ha commosso perfino Platone, che al paragone dice Orfeo “di animo molle”. Ma da
Savinio estenuato – sia il fatto, l’aneddoto, che il mito - nella rappresentazione; tra la politica, nella persona di F.D .Roosevelt,
l’“Ercole dei nostri tempi”, raddrizzatore dei torti, la discesa agli inferi,
anche qui, in un Kursaal della Morte, e una Morte che si maschera di
Resurrezione. Un dramma freddo. Difficile da argomentare, e tanto più da
compartecipare in teatro. Nella “Nuova Enciclopedia” Savinio stesso andava
ammonendosi dell’impossibilità: “La verità è questa sola: dramma non c’è più da
quando non c’è più Dio” – evoluzione che diceva “ragione per noi di profondo
compiacimento”. Deludente due volte. Non è vero che non c’è dramma senza Dio,
anzi. E non c’è leggerezza nei filosofemi.
Lo scrittore professo anti-“profondista” si
espande per duecento lunghe pagine, il doppio di una rappresentazione a teatro,
sulla vita e la morte, e altre metafisiche – la libertà, l’amore, etc. Non
sempre chiaro, anzi più confuso che non. La colpa non è di Hitler né di
Mussolini, è uno degli argomenti minimi – altri sono estesi, tipo la morte che
è vita, o l’esserci che non c’è. “La colpa è dei popoli che hanno espresso dai
propri visceri questi due personaggi”, etc.. Lezioso: “La morte ci coglie per
noia”. O per la “luce indiretta” in salotto: “Ora capisco da dove è venuta la
moda della luce indiretta. Apposta nei salotti di oggi mi sento morto tra morti”. La freddura è micidiale quando non
incide.
Vale la prima recensione, all’“Alcesti”
publicato da Bompiani, prima della messinscena al Piccolo, di Silvio D’Amico,
che Tinterri cita nelle “Note”: “Savinio qui finisce per discorrere de omni re scibili: ve lo ritroviamo
tutto, con le sue predilezioni e le sue ripugnanze, le sue puntate polemiche
sino al pettegolezzo e le sue sublimi illuminazioni; che parla della vita e della
morte, della pace e della guerra, della tirannia e della libertà e perfino, ma
sì, del teatro”.
Il teatro era l’ambizione da ultimo di Savinio,
più della musica. Che vi eccelse con scene e scenografie, ma non con la
produzione drammatica. I tre atti unici, “Il suo nome”, “La famiglia
Mastinu” e il monologo, che ha avuto maggior fortuna, “Emma B. vedova Giocasta”,
ruotano anch’essi attorno alla morte – Emma è “vedova” del suo figliolo amato, come
la Giocasta classica madre dell’edipo freudiano.
Savinio è in realtà – il suo anatomopatologo
Pedullà, Walter, l’ha accertato - autore di “profondità”, sotto l’avversione
professata per il “profondismo”. Alla pari degli anti-“profondisti” classici,
Pope, Swift e gli altri “scribleriani”. “Alcesti” non è un caso, anche in “Casa «La Vita»” non
si parla che di morte. L’autore ha il vizio, dice Savinio di se stesso, di
“mescolare scherzo e serietà”. Ma qui no. “L’azione comincia quando comincia la
parola”, finisce per professare in quanto Personaggio-Autore: “Si cambi la
definizione, il teatro è parola. Meglio ancora: «tutto» sta nella parola”.
Un’idea geniale, nata da un triste aneddoto che Savinio ha già raccontato in varie sedi, “Il Tempo”, “La Lettura”, “La Fiera Letteraria”, “Corriere d’informazione”, e ha ripreso in “Sorte dell’Europa”, 1945. Assistendo alle prove del “Wozzeck” di Alban Berg al teatro dell’Opera di Roma nell’autunno del 1942, ha notato in sala uno sconosciuto che attira la sua attenzione, in quanto “carico di fato”. Roman Vlad gli ha spiegato che è un editore di musica di Vienna, editore anche del “Wozzeck”, sposato a un’ebrea, la quale all’inasprirsi dell’antisemitismo si è uccisa per non danneggiare il marito.
Un gancio formidabile. Che il classicista Savinio trasla automaticamente nel racconto mitico di Alcesti, la moglie che sola seppe immolarsi per salvare il marito. Un precedente commovente, energizzante – Alcesti è la sola donna eroica nella sterminata mitologia greca, ha commosso perfino Platone, che al paragone dice Orfeo “di animo molle”. Ma da Savinio estenuato – sia il fatto, l’aneddoto, che il mito - nella rappresentazione; tra la politica, nella persona di F.D .Roosevelt, l’“Ercole dei nostri tempi”, raddrizzatore dei torti, la discesa agli inferi, anche qui, in un Kursaal della Morte, e una Morte che si maschera di Resurrezione. Un dramma freddo. Difficile da argomentare, e tanto più da compartecipare in teatro. Nella “Nuova Enciclopedia” Savinio stesso andava ammonendosi dell’impossibilità: “La verità è questa sola: dramma non c’è più da quando non c’è più Dio” – evoluzione che diceva “ragione per noi di profondo compiacimento”. Deludente due volte. Non è vero che non c’è dramma senza Dio, anzi. E non c’è leggerezza nei filosofemi.
Lo scrittore professo anti-“profondista” si espande per duecento lunghe pagine, il doppio di una rappresentazione a teatro, sulla vita e la morte, e altre metafisiche – la libertà, l’amore, etc. Non sempre chiaro, anzi più confuso che non. La colpa non è di Hitler né di Mussolini, è uno degli argomenti minimi – altri sono estesi, tipo la morte che è vita, o l’esserci che non c’è. “La colpa è dei popoli che hanno espresso dai propri visceri questi due personaggi”, etc.. Lezioso: “La morte ci coglie per noia”. O per la “luce indiretta” in salotto: “Ora capisco da dove è venuta la moda della luce indiretta. Apposta nei salotti di oggi mi sento morto tra morti”. La freddura è micidiale quando non incide.
Vale la prima recensione, all’“Alcesti” publicato da Bompiani, prima della messinscena al Piccolo, di Silvio D’Amico, che Tinterri cita nelle “Note”: “Savinio qui finisce per discorrere de omni re scibili: ve lo ritroviamo tutto, con le sue predilezioni e le sue ripugnanze, le sue puntate polemiche sino al pettegolezzo e le sue sublimi illuminazioni; che parla della vita e della morte, della pace e della guerra, della tirannia e della libertà e perfino, ma sì, del teatro”.
Il teatro era l’ambizione da ultimo di Savinio, più della musica. Che vi eccelse con scene e scenografie, ma non con la produzione drammatica. I tre atti unici, “Il suo nome”, “La famiglia Mastinu” e il monologo, che ha avuto maggior fortuna, “Emma B. vedova Giocasta”, ruotano anch’essi attorno alla morte – Emma è “vedova” del suo figliolo amato, come la Giocasta classica madre dell’edipo freudiano.
Savinio è in realtà – il suo anatomopatologo Pedullà, Walter, l’ha accertato - autore di “profondità”, sotto l’avversione professata per il “profondismo”. Alla pari degli anti-“profondisti” classici, Pope, Swift e gli altri “scribleriani”. “Alcesti” non è un caso, anche in “Casa «La Vita»” non si parla che di morte. L’autore ha il vizio, dice Savinio di se stesso, di “mescolare scherzo e serietà”. Ma qui no. “L’azione comincia quando comincia la parola”, finisce per professare in quanto Personaggio-Autore: “Si cambi la definizione, il teatro è parola. Meglio ancora: «tutto» sta nella parola”.
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