venerdì 26 giugno 2020

Suicidio dell’Occidente – la distruzione della ricchezza a opera dei ricchi

Si chiude questa cavalcata storica di un non storico - e anche, propriamente, di un non economista - e si resta esterrefatti: ma è quello che gli Stati Uniti da un trentennio hanno fatto, spostando la produzione e le relative tecnologie, e i capitali, in Cina. Nelle “catene di valore” a testa (e corpo) cinese. Per limitarsi al ruolo di consumatori. A beneficio di facili delocalizzatori della produzione. E della coorte degli attaccaticci – troppe risorse a disposizione, troppe mani collose – mediatori d’affari, come si è visto l’altro mese perfino per le mascherine antivirus. Finché dura la rendita accumulata nel duro Ottocento e nel trionfante Novecento. Un suicidio nazionale – che coinvolge l’Europa, l’Occidente. Gli Stati Unirti che si riducono al ruolo di “borghesia compradora” della vecchia polemica terzomondista, come un qualsiasi Sud America.
I segni – fondamenti, si direbbe – del declino dell’Italia, anzi della scomparsa, c’erano prima del contagio. Fabbri, manager di successo, da ultimo come fondatore e gestore di Directa Sim, pioniera del trading online e leader del settore in italia, lo scriveva nel 2015. Partendo da lontano, per arrivare a un sorprendete, ma non infondato, rovesciamento del plusvalore di Marx: non più quello dei lavoratori ma, con più verità, dei produttori, della produzione. Della parte operativa - industriosa, innovativa – della società o nazione.
Il manager umanista esamina in dettaglio cinque grandi crisi storiche: il crollo delle civiltà mesopotamiche (in particolare, del regno ittita) attorno al 1200 a.C., la contemporanea inspiegata scomparsa della civiltà greco-micenea (alla quale, va notato, si deve anche un anticipo delle migrazioni che poi daranno luogo alla Magna Grecia), la caduta dell’impero romano, l’abbandono delle città Maya nel nono secolo, e la crisi dell’Europa meridionale nel Seicento, che farà dell’Italia, il paese più ricco del continente, uno dei più poveri – per almeno un secolo, il secondo Ottocento e il primo Novecento, fino agli anni 1950 e al boom.
Fabbri parte da una polarizzazione che è ancora più vera nel quinquennio susseguente alla sua analisi. Divide un settore produttivo, che produce i beni di consumo e li consuma solo in parte, e uno improduttivo, che beneficia del surplus di beni generato dal settore produttivo. Quando la bilancia si sposta a favore del secondo settore, per l’aumento dell’eta media e quindi dei pensionati, consumatori non produttori, e dei ricchi (questo è il caso dell’America, va aggiunto, dell’ultimo venticinquennio, delle presidenze Clinton, Bush jr., Obama e ora Trump), non si generano più, o vanno progressivamente a scemare, le risorse che consentano al settore produttivo di mantenere le sue dimensioni - se non di affinarle e accrescerle, come è necessario in ambiente competitivo. Risorse, si può aggiungere, anche psicologiche , d’innovazione, di impegno costante diuturno, di intelligenza.   
Mario Fabbri, La rovina delle nazioni, Rubbettino, pp. 340 € 15


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