Giuseppe Leuzzi
Tra
i cimeli di Joe Bonanno nella biografia del figlio Bill scritta da Gay Talese,
“Onora tuo padre”, c’è, ancora nell’edizione tascabile degli anni 1990, la foto
del capomafia con Bernardo Mattarella, il padre del presidente. Con questa
didascalia: “Potente ministro del governo italiano, nativo di Castellammare del
Golfo e amico d’infanzia di Joe”. Bernardo Mattarella si era querelato contro
gli autori dell’autobiografia di Joe Bonanno, successiva di un decennio a questa
del figlio Bill, pubblicata nel 1971.
Nella
mattutina retata di mafiosi per i tg e i giornali radio, il 25 giugno finisce
in carcere Giorgio De Stefano. Che di suo fa Giorgio Condello Sibio, come figlio
della madre, ma da grande si sarebbe unito ai fratelli di sangue paterno, figli
di Paolino, un boss di Reggio ucciso nel 1985 in una guerra di mafia. Giorgio
vive nello show-business. Ha a Milano un ristorante per calciatori e vip. È
compagno di Silvia Provvedi, cantante, influencer e ex di Fabrizio Corona. Noto
come Malefix. Per aver fatto gli auguri alla fidanzata un paio d’anni fa con la
scritta “Buon compleanno Principessa. Malefix”, portata da un aereo sopra
Cinecittà. Ma questa non è in Italia la normalità?
Il mondo è narrazione
Si vedono
inglesi accalcati gli uni sugli altri nelle pallide spiagge, e a Liverpool per
lo scudetto.
Nel paese cioè
che ha il record di morti in Europa per il virus. Gli italiani sono diventati
disciplinati mentre gli inglesi costumati delle file si scatenano a contagiarsi
reciprocamente? È così, ma non cambia nulla: conta la narrazione, e quella
degli inglesi è epica. Si amano. Anche nella morte, si potrà ora dire.
Similmente
la Toscana, che ha la narrazione forse più positiva: regione di grande
bellezza, oltre che di tesori culturali, e per questo virtualmente bene
amministrata, nella sanità, nella viabilità, nell’igiene, nella protezione paesaggistica
e ambientale. Cose tutte vere e non vere per chi la frequenta: Firenze è
una panineria, genere squallido, e rumorosa, anche sporca, per una movida che
più becera non si immagina – ed è il solo atto di vivenza della città. Ma la
fama, il “discorso su”, la narrazione sono coriacei, indistruttibili.
L’economia
sommersa, tutta produttività e niente tasse, De Rita spiega a Concetto Vecchio
sul “Venerdì di Repubblica” di averla “scoperta” a Prato, nel 1969: “Tutti
avevano un secondo lavoro, se non un terzo… C’era un’evasione fiscale
spaventosa”. Ma era già nel “Calzolaio di Vigevano” di Mastronardi un decennio
buono prima. “Molti avevano un telaio nel sottoscala”, spiega De Rita. Anche
gli “scarpari” di Vigevano. Il lavoro in nero e l’economia sommersa non erano –
non sono – del Sud, ma le etichette vi si sono appiccicate e questo è tutta la
storia.
I banditi (di passo)
dell’autostrada
Tra
i 130 commissari alle 130 opere pubbliche urgenti previsti dal decreto
“Semplificazioni” del governo per reagire alla crisi economica indotta dal
coronavirus ce n’è anche uno per la “Tirrenica”. Tirrenica è l’autostrada Civitavecchia-Livorno,
che attende da sessant’anni. Questo del governo Conte non è il primo commissario
straordinario all’opera, altri due o tre sono stati nomionati. Uno si chiamava
Antonio Bargone. Un altro Giorgio Fiorenza. Uno specialissimo commissario
all’opera si dichiarò un ministro dei governi Berlusconi, prima all’Ambiente poi ai
Trasporti, di Orbetello, il ragionier Altero Matteoli , ex Msi, ex An, poi
Popolo delle Libertà e Forza Italia. Che però è morto quattro anni fa proprio in un incidente
stradale sull’Aurelia, e proprio vicino Capalbio, la capitale del no alla
Tirrenica.
Si
dice che l’autostrada non si fa perché i ricchi possidenti di Capalbio si
oppongono. In realtà si oppone la Maremma, i Comuni della Maremma: nessuno può
fare nulla perché i Comuni si oppongono. Non si oppongono, il Pd, il partito al
governo, non lo consente. Cavillano: i governi intanto cadono, le legislature
chiudono, i fondi allocati vanno perduti, e la solfa ricomincia di nuova.
I
sindaci si oppongono in teoria per motivi ambientali: l’autostrada inquina
eccetera. Ma l’inquinamento c’è uguale, anzi peggiore, sull’Aurelia serpeggiante,
un po’ a doppia corsia un po’ no. Si oppongono
perché utilizzano l’Aurelia come cassa. Grazie alle multe per eccesso di
velocità, da eredi dei vecchi banditi di passo, ora per il buongoverno.
Nei
sessant’anni due brevi tratti si sono fatti, per una ventina di km., fuori Maremma: nel livornese, da Livorno a Rosignano, e nel viterbese, da
Civitavecchia a Tarquinia. Sul tratto di Aurelia da Tarquinia a Grosseto Sud,
un’ottantina di km., sono stati contati oltre 700 segnali stradali, di cui 150
circa di variazione della velocità massima consentita.
Napoli
Scrive
un lettore al giornale che periodicamente ritorna a Napoli, e non ci vede nulla
di quanto scrivono i giornali. Vede una città operosa, e all’interno molte
grazie. Vecchie strade, vecchi palazzi, vecchi monumenti, e nuove costruzioni,
ingegnose, ardite, colorate, rifacimenti, ristrutturazioni, ammodernamenti.
Perfino pulizia, che in Italia è rara. Con gente dappertutto garbata nel
tratto, colloquiale, coinvolta e coinvolgente. Non disperata, disadattata. Un
paradiso, senza diavoli?
Al
tempo di Bach, aveva quattro conservatori di musica.
Era
capitale della musica ancora per Stendhal, primo Ottocento. Che il teatro San Carlo
dice “un colpo di Stato”, per aver legato il popolo al re.
“Non
a caso da qui sono partiti i maestri di Plauto, non a caso l’opera buffa è nata
qui”, Riccardo Pazzaglia, “Partenopeo in esilio”, 90.
Era
famosa nel Cinquecento per il gran numero di cavalli delle sue scuderie. Fino
ad Agnano, che ha saputo chiudere, con tutta la lotteria.
La
vera “radice ebraica mediterranea” Ernst Bernhard nella “Mitobiografia” dice la
città. Dove la gente mangia cipolla e parla con le mani, come gli ebrei, un
tempo.
Ognuno
ci trova, si direbbe, quello che ci cerca: una città metamorfica, meglio
caleidoscopica.
Senza
citarlo, probabilmente senza conoscerlo, Riccardo Pazzaglia volgarizza il
pensiero di Alfred-Sohn Rethel su Napoli, nel saggio
“L’ideale dello sfascio” - “Das Ideal des Kaputten. Über neapolitanische Technik”:
“Nacqui in una città, in un rione, in un fabbricato e in una casa dove attorno
a me non c’era niente che fosse nuovo, tutto era già antico, vecchio e rotto.
Ma anche riaggiustato con molta abilità e fantasia”.
Pazzaglia ci aggiunge di suo l’autoconvinzione: “Anzi, per tutti
gli anni dell’infanzia, fui convinto che tutto il resto del mondo fosse sosì:
aggiustato, rattoppato, rammendato, tenuto insieme con filo di ferro, spago,
chiodi arrugginiti”.
Una
scena sohnretheliana di Napoli è in Goethe, che nella città inghirlandata di
salsicce per il carnevale, vede una ventina di ragazzi seduti in cerchio, sopra
le gambe piegate, con le mani aperte stese a terra, immobili e in silenzio. Non
disperdevano il calore: erano seduti sul cerchione di una grande ruota, che il
fabbro aveva appena saldato.
“Una volta, a Napoli, il tassista, che passava clamorosamente
col rosso, ricevette una strombazzata da un’auto”, ricorda Maurizio Ferraris su
“la Repubblica” (“Adorno vide Napoli e non morì”), “che passava regolarmente
con il verde. Il tassista commentò: se ne approfitta perché ha ragione”. Ferraris
si spiega così che “Napoli abbia sempre esercitato una così forte attrazione sui
filosofi”. Soprattutto su quelli “venuti da Nord”, come lui stesso.
Lo stesso Ferraris si ritrova a girare per Napoli “infastidito
come un leghista di una volta” ma pure “sottomesso a una realtà più profonda
infinitamente più antica” della sua. “Nelle insensate processioni della
Madonna dell’Arco” rivede “le usanze delle fratrie greche che nessun
cristianesimo è riuscito ad addomesticare. Nelle donne grassissime e panterate
che girano in moto come se le ruote facessero parte del loro corpo riappare il
Pantheon pittoresco” – il Pantheon, ricorda, “era bianco e composto solo per i
gentiluomini della Virginia del diciottesimo secolo”.
leuzzi@antiit.eu
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