Alle radici – leggibili – di “Finnegans Wake”
Dieci brevi racconti, di un
fatto, un personaggio, che Joyce svilupperà
in “Finnegans Wake”, qui ancora parzialmente leggibili. Abbozzati nel 1923,
qualche mese dopo avere licenziato l’“Ulisse”. Con irriverenze memorabili. Il “martirio”
di san Kevin. San Patrizio e la creazione del bisniss della “relittigiosità
irlandese”, cominciando con l’abolire la lingua. La lettura anti-wagneriana di
Tristano e Isotta, Tris e Issy: Tris “amante senz’amor, peccator senza peccato”
di Issy, “il suo poco men che nipote” e “sua zia prossima ventura”. L’ultima
riga certifica la nascita di Donn’Anna Livia Plurabelle Earwicker, che
troneggerà in “Finnegans”.
Il Joyce goloso, si fa per dire, del
traduttore – ammesso che ci sia gusto nella traduzione. Ottavio Fatica, cui si
deve la traduzione-invenzione di questi brani, si dice offeso e arrabbiato in
una larga nota, con se stesso, con Beckett&Co, i moschettieri dell’illleggibilità
post-“Ulisse”, e con Joyce stesso.
Un strenna. Per joyciani e - in
traduzione - non. Un’edizioncina elegante, con le illustrazioni dell’edizione
inglese, di Casey. Con i due saggi che hanno accompagnato quella edizione.
Danis Rose fa dell“Ulisse” l’epopea dublinese e di “Finnegans” l’epopea
irlandese, di quando Giacomo e Nora riscoprono Dublino e l’Irlanda, da cui
erano fuggiti – lei lavorava da sguattera al “Finn’s Hotel” di Dublino. Fatica
irriverente racconta la vera storia di James e Nora. E sulle citazioni di Joyce
vuole precisare che “non era il «prodigioso lettore» che hanno voluto farci
credere, bensì un piluccatore”.
James Joyce, Finn’s Hotel, Gallucci, pp. 1125, ill. ril. € 13
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