Il mondo dentro WeChat – l'incubo Cina
“La Cina ha ripreso il suo posto
al centro del mondo come vuole il suo
nome, Zhongguo, «terra di mezzo»”.
Attraveso WeChat, la superapp che ha eliminato nella giornata di Pieranni ogni altra
attività o contatto, organizzando, prevedendo e controllando tutto, nei
dettagli. Avendo sopravanzato, di gran lunga dice Pieranni ammiratissimo, il
suo format originario, Facebook – che Facebook sia il format originario di
WeChat Pieranni non lo dice, ma è così. A grande disperazione di Mark
Zuckerberg, “che parla un ottimo mandarino”, “la cui moglie, Priscilla Chan,
nasce da genitori di etnia Hoa”, e che “negli ultimi anni si è recato con una
certa continuità in Cina con un obiettivo preciso”, copiare WeChat.
L’ammirazione è incondizionata, e
questo non è male. Non lo sarebbe, se si articolasse con una qualche
contestualizzazione. Politica, per esempio. Anche economica, perché no. E,
soprattutto, sociale: c’è paese al mondo dove il lavoratore è più sfruttato che
in Cina? No, si procede entusiasti: “Nel diciottesimo secolo, secondo Kant, la
Cina era «l’impero più colto al mondo»”, anche se si sa che la geografia e
l’antropologia di Kant sono piene di cantonate. Peggio quando si arriva al
futuro prossimo.
È un libro d’informazione ma si
legge come un incubo. Senza un motivo specifico ma la sensazione a ogni passo è
di leggere Orwell al rovescio, che il suo mondo controllato, regolato, cupo, si
predenti come suole celestiale. Tanto più perché Pieranni, pur potendo fare i
pesi dopo dieci anni di giornalismo in Cina, sembra ritenere l’incubo una
promessa. Conclude parlando di “ecosistema regolato dalla reciproca fiducia,
tanto fra cittadini quanto fra cittadini e Stato e cittadini e aziende”. Un
paradiso. Molto meglio, argomenta, di quanto avviene in Occidente, dove domina il
Big Tech americano. Ponendo l’alternativa in questi termini: “Lasciamo i nostri
dati alle aziende americane o allo Stato cinese?”. Senza dire la differenza,
che alle aziende americane possiamo negarde i nostri dati, noi e gli stessi
americani, mentre i cinesi, e un po’ noi, allo Stato cinese no.
Niente di nuovo, la vecchia
pubblicistica pre-1989: meglio il Politburo pechinese, questo il sottinteso, di
Apple e Google. Per chi ancora ci crede. Ma nel mezzo c’è la Cina “fabbrica del
mondo”. Fabbrica, va aggiunto, Pieranni stranamente questo lo tace, dei
superprofitti del peggiore capitalismo del mondo, anche di ladri e falsari –
perfino nel mercato del coronavirus. Né impensierisce l’high tech cinese nella Repubblica Ceca, dove l’elettronica “si
sviluppa” con salari medi ribassati rispetto alla precedente gestione e turni
di dodici ore giornaliere: il vecchio socialismo realizzato?
Pieranni sa che la Cina è la
fabbrica del mondo grazie al lavoro atomizzato, senza garanzie sindacali né
contratti collettivi, e liberamente sfruttato, nelle paghe e negli orari. Ma sembra
credere al fourierismo da caserma del regime cinese – è ancora comunista? E gli
fa credito illimitato al futuro. Che è ora il modello Xi di smart city, la città intelligente –
intesa dell’intelligenza artificiale. Come focolare di democrazia. E dunque la
tecnologia è democratica se è cinese, se è comunista. E senza mai dire che
tutto ciò che è smart, tecnologico, intelligente,
è occidentale, che la Cina di Xi ha copiato e copia senza riguardi.
Niente di pauroso in questo specchio
rosso, tutto meraviglioso. All’insegna del nuovismo, ma anche del comunismo,
della vecchia utopia. Come se il regime di Pechino, per quanto con la buona maschera,
sorridente, di Deng e ora di Xi, non fosse un regime autoritario e anzi
tirannico – sorridenti i due salvo che a Tian’anmen e, ora, a Hong Kong. Una
dittatura mondiale è impensabile, e questo solo, per ora, ci salva.
Una cattiva azione editoriale -
di un editore che tutto porta a credere che non ci creda, a tanto socialismo, o
al socialismo tout court.
Simone Pieranni, Red mirror. Il nostro futuro si scrive in
Cina, Laterza, pp. 154 € 14
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