mercoledì 15 luglio 2020

Letture - 427

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Camilleri – Quanto il “vigatese” deve a Vincenzo Consolo, 1992, “Retablo”, la fantasia settecentesca dello scrittore milanese di Sant’Agata di Militello? Il linguaggio anzitutto: un misto di siciliano e italiano che non è siciliano e non è italiano, ma è significante sia in italiano che in dialetto. Fantasioso in Consolo, inventivo, una sorta di avventura nella lingua, e non formulistico né ripetitivo, come quello di Camilleri – come vuole la serialità. E significante (radicato) come linguaggio, non “inventato”. Da “Retablo” vengono probabilmente – o comunque ne ripetono alcuni caratteri fissi - in Camilleri: il servo buono e scemo, altrimenti inconcepibile quale agente di Polizia, seppure demansionato a piantone, il brigante giudizioso, il pastore solitario e primitivo ma sapiente, il protagonista osservatore più che agente.

Dante – Dante “profeta” è dimensione trascurata da qualche tempo - da ultimo vi si è esercitato Bruno Nardi, “Dante profeta”, Laterza, 1942 – Nardi è lo studioso che per primo in Italia ha esaminato i condizionamenti della cultura araba e del neoplatonismo in Dante, più che della scolastica, dell’aristotelismo. Ora è ripresa dal Centro Dantesco dei Frati Minori di Imola, con un convegno di cui Giuseppe Ledda ha redatto gli atti, “Poesia e profezia nell’opera  di Dante”. Profezie come visioni, allucinazioni, vendette - politiche per lo più, riguardanti la chiesa e il papato, da ghibellino.

In nota al “Fanciullino”, la poetica della poesia germinativa, spontanea, Pascoli spiega: “È superfluo aggiungere che per quanto non tutto nella Comedia sia poesia, e non tutta la poesia che v’è sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più «poetico» dei poemi che al mondo sono e saranno. Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”.

Elefante – Impersonò l’Oriente nel Medio Evo, la bizzarria il fasto e il potere orientali. Come tale ne desiderò uno Carlo Magno, come narra ora il medievista Giuseppe Albertono in “L’elefante di Carlo Magno”. La vicenda era stata narrata alcuni decenni fa dallo storico di Pisa Michele Luzzatti. Nel 797 il futuro imperatore dei Romani (si farà coronare a Natale dell’800), inviò al califfo Harun al-Rashid, quello delle “Mille e una notte”, tre ambasciatori con alcuni doni, in cambio dei quali chiedeva un elefante. Quattro anni dopo, ai primi dell’801, sbarcarono a Pisa due messi del califfo e uno dell’emiro di Tunisi, el Abbassiya. I tre dovevano spiegare a Carlo Magno, che si trovava a Pavia, che uno dei suoi tre ambasciatori, Isaac Iudeus, stava per tornare via Africa con un elefante in dono. Isaac Iudeus sbarcherà a settembre a Portovenere, con l'elefante promesso. Che riuscirà a recapitare vivo, nel luglio 802, a Carlo Magno a Aquisgrana. 

Giallo d’autore – Marco Tullio Giordana porta in teatro i progetti matrimoniali di Werner Henze, gay professo e soddisfatto, con Ingeborg Bachmann, che ebbe molti amori, felici e infelici, con Uwe Johnson probabilmente, Celan a più riprese, il marito Max Frisch, Enzensberger, Reich-Ranicki, e alcuni altri. Erano coetanei, pressappoco, avevano scelto Roma (Henze infine Marino), erano amici, avevano la lingua in comune, collaboravano sul piano artistico, lei librettista di “Le cicale”, “L’idiota”,  “Il principe di Homburg”, “Il re cervo” (da Carlo Gozzi), lui compositore. Che altro manca? Giordana ha comprato, spiega a Emilia Costantini su “La Lettura”, da appassionato di auto d’epoca, una Maserati 3500 Gt tra i cui vecchi proprietari figurava Henze. Una macchina in disarmo, piena di robaccia, ripulendo la quale emergono le leltere d’amore tra Ingeborg e Henze. Non è l’unica sorpresa. Le lettere, scritte in tedesco, inglese, francese e italiano “operistico”, sono databili con difficoltà, perché scritte senza indicazione di tempo. Giordana con difficoltà le sistema. Senonché – non è finita – “le lettere originali mi furono rubate in casa”, spiega Giordana. E aggiunge, rendendosi conto dell’inverosimiglianza della cosa: “Un furto su commissione? Da parte di chi?”
Le lettere ritrovate, non datate, rubate, ne abbiamo già sentito. Però, una storia di grandi amori tra una poetessa dai molti amanti e un musicista gay professo, ammirati e amati nel moto teutonico, esuli a Roma, è geniale.

Italia – Il paese dei pini – un “logo Italia” sarebbe un pino solitario? Il “pino solitario” di Luciano Virgili e Giacomo Rondinella. Mandel’štam ha gli “italici pini solitari”, per dire la memoria felice, in un poemetto del 1923 molto nero, pessimista, “Chi trova un ferro di cavallo”.
L’italiano lo stesso poeta (“Compagna del Petrarca”), 1935, dice: “Compagna del Petrarca, del Tasso, dell’Ariosto;\ lingua del tutto assurda, lingua dolce-salata; e splendide gemellanze di quei suoni in combutta…”.
Nella “Conversazione su Dante”, Mandel’štam aveva anche scritto:”Splendida è la fama poetica dei vegliardi italiani, la loro giovane, ferina, voracità di armonia, la loro sensuale concupiscenza nei confronti della rima. Il disio  - “vegliardi” il curatore Remo Faccani intende “in quanto figli dell’«antichità culturale» dell’Italia”.
Per “lingua del tutto assurda” Mandel’stam intende, sempre in “Conversazione su Dante”, “il carattere puerile della fonetica italiana, la sua stupenda infantilità, la sua vicinanza al cinguettio dei bambini, un certo suo congenito dadaismo”.
Mandel’stam aveva debuttato con filastrocche per bambini e racconti per ragazzi.
In una delle ultimissime, brevi, composizioni, “Lo dirò in brutta copia, a fior di labbra”, Mandel’štam ricorda Leonardo, “L’ultima cena”: “E sotto il cielo dimentichiamo spesso\ - sotto un purgatoriale cielo effimero -\ che il felice deposito celeste\ è una mobile casa della vita”.
Il “purgatoriale cielo effimero” il curatore principe di Mandel’štam, M.L.Gasparov, assicura essere il refettorio di Santa Maria delle Grazie di Milano, che ospita l’affresco. Nello stesso giorno in cui scrisse questi versi, 9 marzo 1937, Mandel’štam ricordò in altro componimento, “Il cielo del cenacolo s’è invaghito del muro”, anche l’opera di Leonardo.

Napoli – È grigia, disse subito Walter Benjamin: “Impressioni di viaggio fantastiche hanno colorato la città. In realtà grigia: un grigio rosso e ocra, un bianco-grigio. È molto grigia nei confronti del cielo e del mare”. Così la vede anche Costanzo nella fiction Rai da “L’amica geniale” della Ferrante. Ma si vuole colorata. Coloratissima la fa la Rai, nelle serie napoletane dei napoletani, Carlei, “I bastardi di Pizzofalcone”, e Corsicato, “Vivi e lascia vivere”. Con Ozpetek, “Napoli velata”.

Naturalismo – È la bistecca di Italo Svevo: così Gicomo Debenedetti, che non l’amava, irride al naturalismo-verismo in un saggio su Federigo Tozzi - il suo primo dei tanti interventi su Tozzi, “Con gli occhi chiusi”, pubblicato nel 1963 sulla rivista “Aut Aut”, n. 70, ripreso nella prima raccolta postuma dei suoi saggi, 1970, “Il personaggio-uomo”: “Un noto epigramma di Svevo, cinico solo in apparenza, dice: «Non è tanto che io goda di mangiarmi la bistecca, quanto del fatto che io la mangio e gli altri no». L’arte naturalista postulava un pubblico di mangiatori di bistecche”.  

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