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Marrano è bello
Da una condizione di segretezza,
e quasi di latitanza, a una di affermazione sul mondo, anche se non orgogliosa
né dichiarata: un’estensione e non una mutilazione dell’ebraismo. Anzi, una
sorta di modo di essere dell’ebraismo, se non di ogni sorta d’identità
comunitaria, Donatella Di Cesare arguisce in questa svelta ricostruzione della
condizione dei “marrani” storici, obbligati in Spagna da “re cristianissimi”
alla conversione ma in cuor loro - e in famiglia, al chiuso – renitenti: “La
definizione di marrano mette in questione quella di ebreo”.
La disamina la filosofa utilizza anche,
allargando l’obiettivo, per configurare il tema della identità oggi: non più
univoca, e anzi impossibile se non nel meticciato – che non nomina ma
sottintende nella condizione dei marrani. Dichiarandolo fin da subito: “Con
loro implode e si frantuma il mito dell’identità”.
Si può pensare la condizione del
marrano, costretto a una fede che non sente sua, come di sofferenza e di
ingiustizia, situazioni da riparare. Di Cesare se lo dice, leggendo le storie
che ne sono state fatte, da Cecil Roth a Yersushalmi, partendo da Maimonide. La
dissimulazione porta all’“angoscia della doppiezza”, dice anche, al sé diviso.
Ma per coglierne una ambivalenza, che fa sua. Riportando il marranismo ancora
più lontano di Maimonide, del secolo dodicesimo, al libro di Ester nella
Bibbia, la prima marrana, che vinse per dissimulazione – in un racconto
peraltro che Di Cesare mostra divertito, da “Mille e una notte”, più che
messianico.
Una condizione non di
oppressione, né una furbata. Intanto, una condizione che si è ritorta subito
contro il cristianesimo, inventando e introducendo nella storia
l’irreligiosità, la miscredenza, l’ateismo. E una condizione oggi comune: “Con
loro implode e si frantuma il mito dell’identità”. Anzi, di privilegio, una
sorta di autoimunizzazione, di cui beneficerebbe tutto l’ebraismo. “Il messianismo
si reitera”, è la conclusione di Di Cesare, cioè l’ebraismo. Dopo aver
ricordato Shmuel Trigano: “C’è una sindrome marrana nell’ebraismo”. O, di suo: “Il marranismo è inscritto sin
dall’origine nell’ebraismo. Altrimenti detto: l’origine dell’ebraismo è
marrana”.
Curiosa rivendicazione, di non
appartenenza e di dissimulazione. Che si traduce peraltro in una sorta di
avocazione universale, “da Cervantes a Pessoa, da Montaigne a Proust”, con
Teresa d’Avila e altre sante, “Lazarillo”, la scoperta dell’America, e Benjamin
e Derrida. Una rivendicazione della “purezza del sangue”, la setssa che si
rimprovera giustamente all’Inquisizione. E a un certo punto anche una vasta
rete di connivenze, “una straodinaria rete di collegamenti… un legame fraterno
sviluppato nella clandestinità forzata”. Anzi, ebraica è la storia, è l’altra
conclusione di Di Cesare: “Nella tradizione ebraica il ricordo è un obbligo: zakhor! L’ingiunzione si ripete
ossessivamente nella Torà, anima i versetti, sorregge il testo… Così il popolo ebraico – secondo Yerushalmi –
introduce il concetto di «storia» destinato a diventare patrimonio universale”.
Finale ancora più curioso, la
negazione del mondo. Al termine di tante esclusioni e auto-esclusioni solo
l’ebraismo esiste: il concetto, e la pratica, della thomasmanniana “elezione”.
Ma l’elezione nella dissimulazione?
Donatella Di Cesare, Marrani, Einaudi, pp. 113 € 12
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