Non ci resta che Pascoli
La farragine che si ripropone di studi pascoliani di Cesare Garboli - ci provò una vita e non
ne venne a capo – rimanda alla sua poetica, come Pascoli stesso
la sistemò in questo ampio scritto del 1897. Che sembra riduttivo – elementare: ovvio e generico insieme – della sua immensa erudizione, e della sua caparbietà
rinnovatrice, di rivoluzionario della metrica e la linguistica della poesia. E
forse lo è. Non si va oltre la lallazione, si direbbe, e il primo linguaggio
del bambino, come scoperta dei suoni. Ma è forse di più, come Agamben prova a
dimostrare.
Il “fanciullino” è di Platone,
spiega Pascoli alla prima riga, come di colui che non si spiega – non teme – la
morte. Là dove, nel dialogo “Fedro”, Cebes Tebano sfida Socrate, il
ragionatore: “O Socrate, prova a persuaderci… Forse c’è dentro di noi anche un
fanciullino che ha timore di simili cose; proviamoci a persuaderlo di non aver
paura della morte come di visacci d’orchi”. Subito dopo viene il colpo risolutivo: già i poemi omerici erano del
“fanciullino del cieco”. Eros non c’è nei poemi, perché riflettono
l’occhio del fanciullino che accompagna
“il poeta cieco”: “Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che
siano, che premono ai fanciulli; sì le aste bronzee e i carri da guerra e i
lunghi viaggi e le grandi traversie”.
Col proponimento utopico di una
comunicazione non artefatta – istruita, colta – ma istintiva, naturale. Di una
poetica spontanea: “Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo”. Di una
poetica naturale di contro a quella dotta – erudita, saccente.
Non manca, non detto, un
substrato crociano, della poesia e della non poesia. Partendo da Seneca, dalla
prima polemica contro la retorica. La pseudo poesia si impone con le storie
della letteratura, con le classificazioni e i modelli. “La poesia consiste
nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro noi”.
Non una poetica
sistematica, una rapsodia di umori, seppure in omaggio alla “spontaneità” –
quanto spontanea? Con un saggio di Agamben,
“Pascoli e il pensiero della voce” - saggio foriero de “Il linguaggio e la
morte”, seminario “sul luogo della negatività”, 2008 – che fa da quarant’anni
l’attrattiva di questa edizione, fra le tante, della prosa pascoliana. Dedicato
a Gianfranco Contini, che probabilmente gliene ha dato l’idea: “Già Contini ha
notato il valore puramente fonosimbolico di «zillano»”. Ma lo stesso, nota
Agamben subito, è di molto altro Pascoli, le parole fonosimboliche sono molte.
Da questo Pascoli Agamben estrae – dalla poetica del
“Fanciullino” e dalla pratica di latinista, che della lingua morta fa la
“lingua dei poeti” - una teoresi che curiosamente si adatta alla poesia quale è
dato leggere da un paio di generazioni, allusiva al più, quando proprio “vuol
dire” qualcosa, onomatopeica. Arricchita, si fa per dire, di alloglossie e
eteroglossie - di parole strane.
E dunque, non ci resta che
Pascoli? Esprimere il non formulato. Problema nobile, spiega Agamben, poiché
sant’Agostino se lo poneva – forse per il sacro?
Pascoli sembra semplice ma è complicato.
Un rompicapo per molti, non solo Agamben, alcuni se ne sono occupati una vita, Sanguineti oltre che Garboli, e anche Contini. Agamben ne ha la chiave?
Pascoli gliene dà ampio appiglio. Non in questo “Fanciullino”, nel “Poeta di
lingua morta” cui Agamben fa riferimento. Della poesia che, come la religione, ha bisogno “delle parole che velano e perciò
incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso
presente”, ma poi sono quelle che danno “maggior vita al pensiero”. Da qui
l’acuta conclusione di Agamben: “Glossolalia e xenoglossia sono la cifra della morte della
lingua: esse rappresentano l’uscita del linguaggio dalla sua dimensione
semantica e il suo far ritorno nella sfera originale del puro voler-dire…
Pensiero e linguaggio, diremmo oggi, dei puri fonemi”. Una conquista, una regressione?
Pascoli ne sapeva di più, poiché – va’ a sapere ancora come – lui se la cava.
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, Feltrinelli, pp. 73 €
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