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Poeta al tempo di Stalin
“Ogni messa a morte, con lui, è
una lieta\ cuccagna e un largo torace di osseta”: un distico conclusivo, del
breve componimento “Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese”, che
l’autore giudica debole - “è un finale scadente, ha qualcosa di cvetaeviano” -
ma abbastanza per meritargli, novembre 1934, la polizia segreta in casa di
notte, l’arresto, e il confino, fino alla morte quattro anni dopo. Del distico
finale Mandel’štam aveva peraltro scritto una variante “non autorizzata” che
faceva: “Ogni messa a morte con lui è una cuccagna\ ed è un largo culo di
georgiano”. Lui è Stalin. Era solo l’ultimo di molti epiteti: “il montanaro del
Cremlino”, “tozze dita come vermi”, “occhiacci di blatta”, attorniato da “mezzi
uomini”, “una marmaglia di gerarchi dal collo sottile”.
Anche osseta si voleva offensivo:
“In Unione Sovietica, e soprattutto in Georgia, era diffusa la «leggenda» che la famiglia di Stalin fosse originaria
dell’Ossezia”, minuscola etnia evidentemente non onorevole, “tanto più che il
vero cognome di Iosif Stalin, Ďugašvili, ha il significato letterale di ‘figlio
di osseta’” (Remo Faccani). E comunque non c’erano dubbi: cresciuto “socialista rivoluzionario”, al punto che la
famiglia per evitargli guai lo mandò a studiare a Parigi, dove seguì le lezioni
di Bédier e Bergson, ma liberale in politica, per quello che la politica
contava per lui, convinto della rivoluzione borghese del 1917 ma non di quella
leninista, Mandel’štan aveva vissuto libero per la protezione di Lunacarskij
prima e di Bucharin dopo - nonché, da ultimo, di Pasternak, confidente di
Stalin. Ma sempre nelle ristrettezze (non gli davano casa), al punto da tentare
una volta anche il suicidio.
Una raccolta come divisa in due
parti. Di prima del 1920, approssimativamente, e dopo. La seconda parte “politica”:
sempre lirica ma amara, originata dagli eventi. Testimonianza ennesima, se ce
ne fosse bisogno, della durezza del regime sovietico. Una prima parte invece
lirica nel senso più ristretto, dei lirici greci (anche, un po’, Pindaro),
sebbene senza musica – se non, probabilmente, le armonie verbali. Classica,
immersa nella mitologia – le figure, i luoghi, le immagini – greca e romana. Al
modo come essa era stata rigenerata nel Tre-Quattrocento: gli stessi dei, eroi,
vicende, quasi fossero la culla naturale della poesia. Con molta Italia, che
sarà la passione della seconda vita di Mandel’štam, da reietto politico come
Dante, immerso nella lettura della “Divina commedia” in originale: Venezia,
Roma, Petrarca, Tasso, Ariosto, la lingua, l’Adriatico, i pini.
Una lirica, quella di questa
antologia, non originale: né i temi – tramonti, mare, templi, la storia – né i
versi. Se non, bizzarramente, per lo spirito “haikù” che trapela - nella forma
allungata, del “tanka”: dell’impressione visiva, olfattiva, sensitiva, su una
tela in qualche misura ragionata benché allusiva. Una impressione che il
curatore conferma, non escludendo, filologicamente, una conoscenza diretta
della lirica giapponese nel gruppo di poeti con i quali Mandel’štam era
cresciuto e si rapportava.
La scelta è riprodotta in
originale, a fronte della traduzione. Un complesso lavoro di Remo Faccani, che
tenta una traduzione “sperimentale”, prosodicamente a specchio della scrittura
originale: “reinventa” in traduzione “le
forme del testo russo”. Componimento per componimento, documentando
copiosamente il lavoro svolto, fino a raddoppiare la consistenza del volume.
Con un apparato storico e filologico anch’esso poderoso. E una nota
bio-bibliografica ricchissima di informazioni. Prima dell’esilio familiare a
Parigi, Mandel’štam aveva frequentato il liceo sperimentale privato del
principe Tenišev. Lo stesso che frequenterà qualche anno dopo Nabokov, che ne
ha scritto. Tra i professori Gipsius.
Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, Einaudi,pp. 277 € 16
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