martedì 14 luglio 2020

Poeta al tempo di Stalin

“Ogni messa a morte, con lui, è una lieta\ cuccagna e un largo torace di osseta”: un distico conclusivo, del breve componimento “Viviamo senza più avvertire sotto di noi il paese”, che l’autore giudica debole - “è un finale scadente, ha qualcosa di cvetaeviano” - ma abbastanza per meritargli, novembre 1934, la polizia segreta in casa di notte, l’arresto, e il confino, fino alla morte quattro anni dopo. Del distico finale Mandel’štam aveva peraltro scritto una variante “non autorizzata” che faceva: “Ogni messa a morte con lui è una cuccagna\ ed è un largo culo di georgiano”. Lui è Stalin. Era solo l’ultimo di molti epiteti: “il montanaro del Cremlino”, “tozze dita come vermi”, “occhiacci di blatta”, attorniato da “mezzi uomini”, “una marmaglia di gerarchi dal collo sottile”.
Anche osseta si voleva offensivo: “In Unione Sovietica, e soprattutto in Georgia, era diffusa la «leggenda»  che la famiglia di Stalin fosse originaria dell’Ossezia”, minuscola etnia evidentemente non onorevole, “tanto più che il vero cognome di Iosif Stalin, Ďugašvili, ha il significato letterale di ‘figlio di osseta’” (Remo Faccani). E comunque non c’erano dubbi: cresciuto  “socialista rivoluzionario”, al punto che la famiglia per evitargli guai lo mandò a studiare a Parigi, dove seguì le lezioni di Bédier e Bergson, ma liberale in politica, per quello che la politica contava per lui, convinto della rivoluzione borghese del 1917 ma non di quella leninista, Mandel’štan aveva vissuto libero per la protezione di Lunacarskij prima e di Bucharin dopo - nonché, da ultimo, di Pasternak, confidente di Stalin. Ma sempre nelle ristrettezze (non gli davano casa), al punto da tentare una volta anche il suicidio.  
Una raccolta come divisa in due parti. Di prima del 1920, approssimativamente, e dopo. La seconda parte “politica”: sempre lirica ma amara, originata dagli eventi. Testimonianza ennesima, se ce ne fosse bisogno, della durezza del regime sovietico. Una prima parte invece lirica nel senso più ristretto, dei lirici greci (anche, un po’, Pindaro), sebbene senza musica – se non, probabilmente, le armonie verbali. Classica, immersa nella mitologia – le figure, i luoghi, le immagini – greca e romana. Al modo come essa era stata rigenerata nel Tre-Quattrocento: gli stessi dei, eroi, vicende, quasi fossero la culla naturale della poesia. Con molta Italia, che sarà la passione della seconda vita di Mandel’štam, da reietto politico come Dante, immerso nella lettura della “Divina commedia” in originale: Venezia, Roma, Petrarca, Tasso, Ariosto, la lingua, l’Adriatico, i pini.
Una lirica, quella di questa antologia, non originale: né i temi – tramonti, mare, templi, la storia – né i versi. Se non, bizzarramente, per lo spirito “haikù” che trapela - nella forma allungata, del “tanka”: dell’impressione visiva, olfattiva, sensitiva, su una tela in qualche misura ragionata benché allusiva. Una impressione che il curatore conferma, non escludendo, filologicamente, una conoscenza diretta della lirica giapponese nel gruppo di poeti con i quali Mandel’štam era cresciuto e si rapportava.
La scelta è riprodotta in originale, a fronte della traduzione. Un complesso lavoro di Remo Faccani, che tenta una traduzione “sperimentale”, prosodicamente a specchio della scrittura originale:  “reinventa” in traduzione “le forme del testo russo”. Componimento per componimento, documentando copiosamente il lavoro svolto, fino a raddoppiare la consistenza del volume. Con un apparato storico e filologico anch’esso poderoso. E una nota bio-bibliografica ricchissima di informazioni. Prima dell’esilio familiare a Parigi, Mandel’štam aveva frequentato il liceo sperimentale privato del principe Tenišev. Lo stesso che frequenterà qualche anno dopo Nabokov, che ne ha scritto. Tra i professori Gipsius.
Osip Mandel’štam, Ottanta poesie, Einaudi,pp. 277 € 16


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