Quarant'anni e non li dimostra
Un racconto di quarant’anni fa che
sembra di oggi: la famiglia allargata (allargatissima, già allora senza padri:
la mamma cambia spesso i compagni e con ognuno procura di fare un figlio),
l’immigrazione, i marciapiedi dissestati e le buche, le febbri da centro
commerciale, le manoleste, il “capro espiatorio” - l’impiegato su cui riversare
le sontentezze dei clienti. Tutte le ubbie triviali che esauriscono il nostro essere. Tutto da
ridere. Con la pedofilia-necrofilia, e le bombe al centro commerciale, non da
ridere - non c’è il darkweb perché non c’era ancora il web, ma funziona come
se.
Non è il solo merito. Pennac,
maestro di formazione e mestiere, già scrittore per ragazzi, romanziere per
prova, si diverte e diverte. Con la grammatica, e con la grammatica del
racconto. Forte italianista, che solo legge Gadda, il
“Pasticciaccio”. Di suo pasticciando amabile, senza farlo pesare. Mette in
scena il “capro espiatorio” appena filosofato da René Girard. La morosa del
destino chiama “zia Julia”, e le dà 32 anni, come la zia di Vargas Llosa, da
poco (1977) famosa. Anche lo stile buffone, aristofanesco, attorno a un
protagonista, Malaussène, che è un “deus ex machina”, sembra una ripresa, dal genere americano che trovava
il suo riferimento nel “Mumbo Jumbo” di Ishmael Reed - Malaussène si vuole “Ubu
Re, «cittadella vivente»”, e ha la “memoria omeopatica” delle “circa 24 mila
vignette degli albi di Tintin”.
Un divertimento, sovversivo, eversivo,
irridente, nella naturalità-normalità del day-to-day. Il primo racconto del
“ciclo Malaussène”, sette libri, e il primo del “quartetto Belleville”. Molto
aiutato dalla traduzione:Yasmina Melaouah lo asseconda e quasi lo migliora –
l’italiano sembra perfino più “maulassèniano” (disinvolto, paradossale) dell'originale.
Daniel Pennac, Il paradiso degli orchi, Feltrinelli,
remainders, pp, € 3,75
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