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Wagner contro gli ebrei
La “naturale stoltezza degli
ebrei” dice tutto, si può anche non andare oltre. Anche perché poco prima o poco dopo Wagner rivendica una
“insormontabile ripugnanza nei confronti della natura ebraica”. Ma la lettura
merita: dice molto del razzismo, oltre che della Germania e di Wagner.
Wagner scriveva molto, di musica
e di politica, e quasi sempre in guerra contro qualcuno. Da polemista, quindi,
anche qui. Contro Hegel, tra i tanti, per “la devastazione provocata” dalla sua
filosofia “nelle menti tedesche”, rifacendosi a Schiller, estetica del bello, e
a Kant, dalle “grandi idee”. Contro gli impresari d’opera, che non lo mettono
in scena. Contro i critici musicali, che non apprezzano la sua “musica
dell’avvenire”. Ma soprattutto contro gli ebrei. Che monopolizzano
l’informazione, l’editoria, i teatri, il mercato dell’arte. E contro gli artisti
ebrei, incapaci di “vera arte”.
Contro Heine: “L’ebreo Heine, pur
dotato di rare qualità poetiche, ha portato alla luce, con beffardo sarcasmo, la
menzogna, la smisurata monotonia e la gesuitica ipocrisia dei fabbricatori di
versi che si danno arie da poeti”. Ma soprattutto contro i musicisti. Contro Meyerbeer,
che non nomina, dopo avere abusato dei suoi favori, a Parigi e anche in
Germania, per un lungo decennio, importunandolo con ogni sorta di richieste. Mendelssohn-Barholdy,
delle cui doti “germaniche” inoppugnabili si profonde in elogi e rimpianti,
ripetitivamente ricacciando nel suo limite invalicabile dell’essere comunque
ebreo.
Sulle prima non sembra, Wagner
non è virulento. Sembra, vuole essere, persuasivo. La premessa è perfino
onesta. Di uno, afferma che non è mai stato in conflitto con gli ebrei “sul
piano esclusivamente politico”. Di più, “non ce la prenderemmo con loro nemmeno
se fondassero un regno di Gerusalemme” – concludendo però beffardo: “Piuttosto
abbiamo un solo rammarico: che il signor Rothschild sia stato troppo astuto per diventare re
degli ebrei, preferendo invece, com’è noto, rimanere «l’ebreo dei Re»”. Il
problema è gli ebrei tra noi, “la natura di questa involontaria ripugnanza che
la personalità e l’essenza degli ebrei suscitano in noi, questa istintiva e
spontanea avversione… il nostro naturale disgusto verso la natura ebraica”. Niente
di meno.
Abbiamo combattuto, ha premesso, “per
l’emancipazione degli ebrei”, ma “combattevano più per un principio astratto
che per un fatto concreto”. Wagner è reduce dalla rivoluzione del ’48, ancora
bakuniniano, e quindi democratico, molto, ma con preclusioni. Psicologiche, dice: essere
tedeschi di fronte a una presenza aliena. E di radicamento. Tanto più per un
artista: il radicamento è necessario all’arte, il riconoscersi parte di una
storia e una comunità, di un popolo. Con subisso già all’epoca, quarantottesca,
di Volk e völkisch - quale si avrà nella Germania hitleriana e in Heidegger (ma
anche, nota Wagner in segno di rimprovero, in Berthold Auerbach, che si vuole cantore
ebraico di Volk e völkisch).
L’arte ha bisogno di radicamento, storico, tradizionale, sociale: popolare. Il poeta
non può creare, solo il popolo. L’ebreo è incapace di arte perché è sradicato, non
ha un popolo.
E non è tutto. Con l’emancipazione,
aggiunge, abbiamo “consegnato nelle mani di ebrei operosi il comune gusto
artistico del nostro tempo”. Da qui “l’impossibilità di produrre, sulla base
dell’attuale sviluppo delle arti, opere d’arte naturali, necessarie e veramente
belle”. Lunghe pagine quindi per dimostrare che l’ebreo resta straniero. E che
l’ebreo è incapace, di musica, di arte. Quello che si dice razzismo biologico, tra
raffigurazioni fisiche grottesche e ripetuti sarcasmi sule melopee in
sinagoga.
Con tutta la buona volontà, l’ebreo
non ha la lingua, il suono, il canto. “La musica è la lingua della passione”. L’ebreo
ne è incapace. Un’insensibilità particolare ha per il canto. È arrivato alla
musica con l’imborghesimento. Che però facilita la riflessione ma non la
poesia, non la musica. Per quanto accettato, l’ebreo riane diverso, specie
nelle arti, limitato. E di suo inerte: “L’ebreo non ha mai avuto un’arte
propria”. Per l’ebreo in generale anzi non c’è salvezza. Alla fine dell’argomentazione
Wagner si fa profetico. La sola redenzione per lui possibile è la rovina, sono
le ultime parole: “La redenzione di Ahasverus, la rovina, la fine, la morte, la
caduta!”
Un senso c’è, è giusto non
censurare questo Wagner. Il nazionalismo völkisch,
tradizionale, etnico, sia pure rivoluzionario, fa più paura dell’antisemitismo
– l’antisemitismo radica nel völkisch,
ne è l’espressione popolare, fare breccia contro l’estraneo, l’intruso, in automatico
eretto a nemico. Non vi vergognate di non provare ribrezzo per l’ebreo, chiede
a un certo punto Wagner, sdegnato che non tutti i buoni tedeschi facciano quello
che lui dice debbono fare.
A Wagner si perdona molto, ma ha
molto da farsi perdonare. Non di cattiveria, ma di confusione. Da “buon
tedesco”.
Il testo del 1850, di una
trentina di pagine, pubblicato con uno pseudonimo, K. Freigedank, libero
pensiero, tradotto per la prima volta nel 1897, è qui rimpolpato per la prima
volta con la lettera, di lunghezza analoga, che inviò nel 1869 a Marie
Muchanoff, contessa Nesselrode, che ne desse conto agli amici e nel suo
circolo, per lamentare le critiche, vittima dei “giornali, non solo in
Gerrmania, ma anche in Francia e persino in Inghilterra”, e le resistenze dei
direttori dei teatri d’opera. Che il compositore attribuisce “agli ebrei”, agli
editori, direttori di teatro, giornalisti e musicisti ebrei, che non gli
perdonano la critica del giudaismo, di cui allega la copia. Leonardo V. Distaso,
che ha tradotto e cura la pubblicazione dei due scritti wagneriani, li dota di
un’ottima dettagliata contestualizzazione. Ricca di golosi dettagli. Basti quello
di Spontini, ricavato dall’autobiografia di Wagner. È il bello algido compositore marchigiano che, a Parigi, porta il tedesco all’antisemitismo “musicale”: fautore della “serietà
dell’arte”, gli spiega che gli italiani sono cochons, i francesi imitatori degli italiani, e i tedeschi rovinati
dagli ebrei.
Richard Wagner, Il giudaismo nella musica, Mimesis, pp.
171 € 15
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