Giuseppe Leuzzi
“Un
paese ci vuole”, questa la citazione integrale di Cesare Pavese, scrittore
delle origini, del radicamento (“La luna e i falò”), “non fosse che per il
gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella
gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci
sei resta ad aspettarti”.
“La Campania doppia la Valle d’Aosta nel prelievo (fiscale) locale”, “Sole 24 Ore”: 2.066 euro nel 2019, la quota più alta fra le regioni italiane –
era 2.416 nel 2015…. Seconda viene la Calabria, con 1.846 euro – alla pari di
Toscana e Piemonte. Le regioni con i servizi (sanità, viabilità, rifiuti,
assistenza) non migliori e anzi probabilmente i peggiori.
La questione meridionale non è la stessa. Rileggendo gli studi
– analisi, ricerche - per lo più storici, o di storici dell’economia, che hanno
letto l’Italia della Repubblica, si capisce che il Sud è in una fase di nuovo
disgregamento. Dopo che per mezzo secolo, da Moro e De Mita a Berlusconi (base
elettorale) e Napolitano, ha determinato gli assetti istituzionali. Il
dirompente “Saggio sulle classi sociali” di Sylos Labini, 1974, le “Tre Italie”
di Bagnasco, “Il sacco del Nord” di Ricolfi, l’overview di Toniolo sulla “Italy’s Economic Growth”.
Machiavelli al
muro di Ancona
Non
c’è una parola, nelle opere teoriche e storiche di Machiavelli, del Regno
aragonese. Che pure nei suoi anni pesava negli equilibri europei e italiani. E
si distingueva – si era distinto prima della sottomissione all’impero - per
forza e munificenza.
Marcello
Simonetta, “Tutti gli uomini di Machiavelli”, vuole Machiavelli a Napoli. Paolo
Vettori, nominato ammiraglio della flotta pontificia da Leone X nell’aprile
1516, “lo coinvolse nelle operazioni navali della spedizione punitiva nel Tirreno contro il corsaro turco
Curtogoli, che faceva base a Biserta, in Tunisia”. Non si sa che grado di partecipazione
Machiavelli ebbe nella spedizione. Ma c’è “un Machiavelli marinaro che emerge
dalle carte”, assicura Simonetta. E specifica: “Di sicuro si trovava a Napoli
verso la fine dell’estate per occuparsi delle galee pontificie di ritorno dalla
Sicilia”. Un Machiavelli che non misconosceva il Sud, aggiunge lo storico.
Ricordando però, appunto, che “nelle sue opere teoriche non dedica neanche una
riga al Regno aragonese”.
Una storia di morti,
senza rinascite
Meglio morire che sopravvivere, dice
Renato Fucini, per una volta fuori dal bozzettismo toscano, in “Napoli a occhio
nudo”, a proposito di Pompei: “Pompei è la città che ha saputo morir meglio di
tutte le altre sue bellissime sorelle della Magna Grecia, poiché la morte
violenta per asfissia è l’unica morte che
si addice alla bellezza”. La morte immediata. Mentre Agrigento, Siracusa,
“scheletri corrosi dal tempo”, sono materiali da osteologia, “il cadavere di Pompei
ha tutte le sue membra intatte” – “l’anima è partita ed il corpo non si è
corrotto”.
Ma la verità storica, al di fuori dell’estetismo,
è un’altra: il Sud è una serie di morti senza mai una rinascita. Se non il
progetto, forse, di Federico II di Svevia, un tedesco.
Se
la ricostruzione è la rovina
Curiosamente sdegnato lo scrittore
peruviano Manuel Scorza in visita a Napoli nel 1981, l’anno dopo il terremoto
dell’Irpinia. Forse non incantato dalle sirene, ma non senza logica: “Mi chiedono
qual è l’aspetto di Napoli che più mi ha colpito. Preferisco rispondere leggendo
alcune righe di un settimanale italiano: «La misura della degradazione sociale
la diedero i commercianti nella giornata di mercoledì: andarono in processione
dal commissario straordinario Giuseppe Zamberletti a lamentarsi perché
arrivavano in soccorso troppi generi
alimentari e vestiario. E loro vedevano precipitare gli affari». E allora dico:
l’aspetto più difficile di una ricostruzione sta nel fatto che ricostruire,
secondo il significato letterale della parola, vuol dire costruire di nuovo la stessa cosa. E come costruire, ricostruire una
società basata su tali mostruosità? Ecco perché si auspica, al posto del
tragico terremoto geologico, un terremoto
morale, che riduca in macerie il sinistro edificio in cui abita tanto egoismo”.
Non c’è solo la mafia
Cerca
la mafia naturalmente (pigramente) Saviano su “la Repubblica” nella stazione
dei Carabinieri di Piacenza arrestati per violenza e spaccio. Ma la cerca dalla
parte sbagliata: “È difficile credere che si possa costruire un’organizzazione
come hanno fatto questi carabinieri infedeli senza l’alleanza e l’accordo con
le ‘ndrine”.
Non
è problema di “credere”, è un fatto. Non c’è il male se non c’è la mafia lo
dovrebbe pensare solo Riina.
La
stazione dei Carabinieri di Piacenza operava all’interno di una tenenza. Che
opera all’interno di una compagnia, che opera all’interno di un gruppo, e il gruppo
sta sotto un Comando provinciale. Prosperava a danno di prostitute e
spacciatori africani, naturalmente invisibili, ma non nascondeva i profitti e
anzi la esibiva.
Naturalmente
non si può rigirare lo schema Saviano e dire i Carabinieri una mafia. Però ai
giardinetti che erano terreno operativo dei Carabinieri di Piacenza i
giornalisti accorsi hanno trovato, dopo gli arresti, bambinetti e nonni tra le
siringhe e gli spacciatori seduti.
Mentre
è vero che la banda dei Carabinieri di Piacenza è siculo-napoletana. Questo è,
sarebbe, un altro discorso, ben più interessante.
Calabria
Stefano
Mancuso, l’autore de “La rivoluzione delle piante”, il ricercatore che ne ha provato
l’intelligenza – insomma, non hanno il cervello ma ne hanno uno “diffuso” - ricorda
a Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore” domenica i suoi “quindici anni”, quindi gli
anni 1970: “Ogni estate dopo la fine della scuola io e i miei amici prendevamo
il pullman fino a Soverato”, e da lì, con lo zaino in spalla, camminavamo per
dieci giorni lungo il mare, dormendo nei sacchi a pelo, anche senza tenda.
Quando la Calabria non era stata occupata manu
militari – dalle cosche?
Rose,
un paese di quattromila abitanti sopra Cosenza, con otto chiese e un castello, è
una piccola Silicon Valley, ospitando tra l’altro il team, per gran parte locale, di The Syllabus, “il meglio
dell’informazione online”, selezionata secondo criteri di rilevanza, cioè
qualitativi. Un progetto ambizioso e una novità assoluta. Ma non in Calabria.
Il
“cappello alla calabrese” era rivoluzionario – insieme con la barba a pizzo – a
Napoli a metà Ottocento, dopo i moti del ’48. Era “grande delitto” portarlo,
nota Gregorovius nelle sue “Passeggiate pr l’Italia” nel 1850. Anche il
cappello.
Marcello
Simonetta. “Tutti gli uomini di Machiavelli”, trova Bernardino Telesio,
“filosofo e naturalista cosentino”,
frequentatore del circolo del cardinale Niccolò Gaddi a Firenze, negli
anni 1530. Un Telesio poco più che ventenne.
Era
– con la Basilicata – “il Mezzogiorno dell’osso”, di Manlio Rossi Doria. Le
zone montagnose interne reputandosi inerti, benché terre del grano e del pascolo,
mentre quelle di mare erano per lo più
malariche.
“Mancu
li cani”: il sito romanesco “Rome is more” romanizza il modo di dire. Come già
da decenni Milano si è presi tamarro e togo. Segno di un’emigrazione stabilizzata,
ma che non rinuncia ad alcune parole chiave, seppure “traducendole” – un po’ alla
maniera dei “marrani”, gli ebrei che si battezzavano ma non rinunciavano a
essere ebrei, seppure per ombre e formule.
Il
San Luca, squadra di calcio montata da don Pino Strangio all’indomani della strage
di Duisburg in un progetto di pacificazione, è cresciuta in fretta e ora va in
serie D. La squadra di un paese di tremila abitanti, e con le zavorre mafiose
note. Don Strangio però ha perso parrocchia e ogni altro incarico – e con lui il
vescovo di Locri che lo proteggeva , mons. Bregantini - per la pace imposta ai
clan dopo Duisburg, per evitare l’ennesima faida.
Mons.
Bregantini, trentino, ex operaio, un vescovo moto fattivo, uno che in pochi
mesi aveva ribaltato l’humus della locride, dava fastidio alle logge locali, intese
logge massoniche. Piccoli comitati d’affari
- si appoggiano anche alla malavita. Vero. Ma i Carabinieri hanno dato torto al
vescovo, dopo averne intercettato al telefono i progetti di pacificazione - non intercettavano Bregantini, intercettavano i mafiosi, che parlando tra di loro si dicevano: “Questo vescovo ha le palle”.
Cento
produttori vitivinicoli nazionali classificati per fatturato da “L’Economia”,
da 624 a 10 milioni di fatturato, e non un produttore calabrese. Di una regione
che ha il record di vitigni autoctoni, 140,
e non sa nemmeno di averli, una miniera. E comunque non sa, non si cura,
di metterli in valore.
La
cosa è peggiorata in pochi anni. Nella classifica per qualità di “Wine Spectator”
2015, la bibbia del settore, fra le 103 case vinicole italiane selezionate
figuravano due cantine calabresi. Del resto, ogni anno la Calabria produce meno
e non più vino – a differenza della Sicilia e della Puglia, che in un paio di
decenni si sono assicurate una larghissima fetta di un mercato che non cessa di espandersi. Ora è al livello della valle
d’Aosta – “’ccà ‘ndavimmu l’aria”, cantava Otello Ermanno Profazio ironico, per
dire non abbiamo altro, ma ora anche il sole è inutile.
Il
sanfedismo? Fu rivoluzionario, Hobsbawm laconico decide nel 1969, ne “I Banditi”
(“Il banditismo sociale nell’età moderna”). “Una rivoluzione sociale non è meno
rivoluzionaria perché si schiera a favore della «reazione»”, stabilisce lo
storico inglese. Semplicemente, “i banditi – e i contadini – del Regno di
Napoli che insorsero in nome del papa, del re e della fede contro i giacobini e
gli stranieri erano dei rivoluzionari, mentre il papa e il re non lo erano”.
Ha una squadra in serie A, due in serie B e due in serie C, i cinque capoluoghi di provincia, un record fra tutte le regioni. E non ha altro.
leuzzi@antiit.eu
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