Neri (“Neri Tanfucio” è
pseudonimo di Renato Fucini, il nome d’esordio) è cacciatore, e dalle sue
camminate ricava storie, del vario mondo che incontra. Argute, ma per lo più
compassionevoli, di povertà, di fame perfino, di malattie, di morte. Sulla scia
probabilmente, comunque dopo il successo internazionale, delle “Memorie di un
cacciatore” di Turghenev – che si dice abbiano spinto lo zar Alessandro II a
liberare i servi della gleba. O di Auerbach, Berthold, l’autore dei “Racconti
rusticani della Foresta Nera”, appena tradotti con successo, nel 1869, proprio
a Firenze.
Insomma, il genere andava, negli
anni 1870-1880. In una vena leggera nel caso di Fucini. “Scrittore
sollazzevole” lo dice Luigi Russo all’avvio del breve revival dello scrittore toscano dopo la guerra - cui “Belfagor”, la
rivista dello stesso Russo, dedicò un numero nel 1960 - che culminerà nel 1963
con la pubblicazione delle opere nei Classici Mondadori. E sempre con un occhio
pietoso per la povertà e la disgrazia - “Fucini era un reazionario” scrive
Cassola irato nella presentazione di questa edizione, ma dai racconti non si
vede dove.
Le “Veglie” perfezionano il gergo
toscano per cui Fucini diventò un’icona – e forse è la lingua che ha messo
Cassola di malumore, essendo egli contrarissimo alla “toscanità”, poi di
Papini, Mapalarte, il primo Palazzschi, che dice una gabbia per gli scrittori
toscani, lui personalmente volendosi legato a Pratesi, Tozzi e Bilenchi. Ma
oggi non faticoso, con buone note a pie’ di pagina come in questa edizione, e
anzi di lettura coinvolgente, per il bizzarro ritorno dei dialetti, delle
piccole patrie, localistiche, campanilistiche. Verga a suo tempo se ne diceva
ammiratissimo, in una lettera allo stesso Fucini - che il ricco apparato di
questa edizioncina riporta - cui invidia “il tesoro della lingua”, ammirato soprattutto
della “precisione e efficacia che ci vuole pel bozzetto”. Una parlata Fucini
imita di base pisana, con l’aggiunta qua e là di costrutti e parole particolari
che interlocutori occasionali gli prospettano – il metodo lo stesso Fucini
spiega a un interlocutore, in un’altra lettera qui acclusa.
Un linguaggio suo, di Fucini,
alla Camilleri, ma di recupero e non d’invenzione, di parole e modi locali o
perenti, che di fatto non è poi il “toscano” di Papini, Malaparte e
Palazzeschi. Abbozzato nei “Sonetti di Neri Tanfucio”, 1872-1879, il libro
d’esordio, che lesse man mano che li componeva nel salotto Peruzzi a Firenze in
Borgo dei Greci, e in quello di Paolina Bicchierai, a palazzo Le Monnier, con riconoscimenti
autorevoli, di Ferdinando Martini, de Amicis, Pietro Fanfani, Sonnino e
Franchetti, che pubblicheranno poi queste “Veglie” a mano a mano che Fucini le
scriveva, 1876-1881, nella loro “Rassegna settimanale”, e rapidamente lo
portarono alla notorietà. Invitato a Napoli da Pasquale Villari, vi incontrò
Giustino Fortunato e ne ricavò le ancora interessanti cronache “Napoli a occhio
nudo”, 1878, anche queste pubblicate nella “Rassegna settimanale” - Franchetti
e Sonnino erano molto attenti agli eventi al Sud.
Anche Tozzi negli stessi anni
faceva un uso tutto suo della parlata senese, costrutti e terminologia, con un
altro uso del gergo, drammatico e non zuzzurellone, giocoso. Questo è vero, si
può stare qui con Cassola. Ma il repertorio di Fucini resta più vivace, e
significante. Soprattutto non tipico.
Una curiosa riproposta, questa
Bur, del 1979, introdotta da un Cassola furente. Incaricato di invitare alla
lettura delle “Veglie” e del loro autore, termina con “l’ideale becero di cui
Fucini era portatore”. Becero non solo lui, aggiunge Cassola: “Nesun filisteo
era stato in armonia col suo tempo come Renato Fucini”. Il suo “toscano” è
d’accatto, insiste Cassola, una lingua furba, il “toscanismo degli stenterelli”
che irritava Carducci. E invece no.
Dalle “Veglie” non si direbbe,
non sono né becere né reazionarie. In un racconto è detto “reazionario” il beghino merciaio che a un
certo punto si scuote, sull’esempio del calzolaio di fronte socialista, e del
prete mangione, e fa la rivoluzione. Il racconto borghese è uno solo, e il più
lungo, ma è una satira, anche insistita. C’è molta pietas, per il destino delle ragazze, belle e liriche
nell’adolescenza, condannate dalla vita inesorabile. Non ci sono padroni e
servi. C’è qualche stereotipo, sul tipo dei camilleriani circoli dei notabili,
ma nemmeno tanti. Soprattutto, rileggendole ora, non sono bozzetti, come si
sono definite e si volevano: sono racconti. In ritardo forse su Capuana e De
Roberto – e presto surclassati dal pirandellismo (ma Pirandello ha molte
“veglie” al suo attivo, tra i racconti e anche tra i romanzi). Ma personaggi
emergono e quadri veritieri, storicamente, quasi dei monumenti-documenti,
“Vanno in Maremma”, “Tornano di Maremma”, la fame, la leva militare (una
tragedia) - che dovrebbero stringere il cuore a chi ora, Citati, Calvino, ha
conosciuto e usato quei posti per la bellezza e il riposo. Con poveri di
sensibilità altrettanto grande che la fame e il freddo. Racconti comunque di
campagna vera, non da giardinetto di seconda casa.
Racconti peraltro di un’Italia
ancora viva, perfino nel linguaggio, involuto, chiuso, separato, tra
l’Appennino pistoiese, la Lunigiana, la
Maremma - dove pure si andava a cercare lavoro, nella malaria. In troppi luoghi
ancora talmente povera che il più abbandonato e povero Sud ci fa figura di abbiente.
Nella Maremma delle seconde case romane non più, ma sì ancora nella parte
interna del grossetano, malgrado l’affluenza recente (le case rinnovate
o costruite nuove, i luoghi di ritrovo, il wi-fi e la differenziata), e per la
Garfagnana alpestre, o la Lunigiana, per quanto prospicienti aree di forte
consumo qualitativo, perfino del lusso, della Versilia e del litorale apuano.
Il linguaggio sarà stato
ricercato e desueto già all’epoca, una costruzione immaginaria. Ma, intanto,
col glossario a pie’ di pagina non è faticoso. E resta un monumento a una parte
dell’italiano abbandonata o desueta. Modi di dire non insensati né ridondanti.
Con un che di schietto, che la lingua necessariamente perde, nella parola e nel
modo di dire, volendosi regolata. Effetto della lingua parlata trascritta –
quello che Gadda ha saputo riprodurre di certo romanesco, del romanesco
d’immigrazione.
Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur, remainders, pp.
236 € 4
Insomma, il genere andava, negli anni 1870-1880. In una vena leggera nel caso di Fucini. “Scrittore sollazzevole” lo dice Luigi Russo all’avvio del breve revival dello scrittore toscano dopo la guerra - cui “Belfagor”, la rivista dello stesso Russo, dedicò un numero nel 1960 - che culminerà nel 1963 con la pubblicazione delle opere nei Classici Mondadori. E sempre con un occhio pietoso per la povertà e la disgrazia - “Fucini era un reazionario” scrive Cassola irato nella presentazione di questa edizione, ma dai racconti non si vede dove.
Le “Veglie” perfezionano il gergo toscano per cui Fucini diventò un’icona – e forse è la lingua che ha messo Cassola di malumore, essendo egli contrarissimo alla “toscanità”, poi di Papini, Mapalarte, il primo Palazzschi, che dice una gabbia per gli scrittori toscani, lui personalmente volendosi legato a Pratesi, Tozzi e Bilenchi. Ma oggi non faticoso, con buone note a pie’ di pagina come in questa edizione, e anzi di lettura coinvolgente, per il bizzarro ritorno dei dialetti, delle piccole patrie, localistiche, campanilistiche. Verga a suo tempo se ne diceva ammiratissimo, in una lettera allo stesso Fucini - che il ricco apparato di questa edizioncina riporta - cui invidia “il tesoro della lingua”, ammirato soprattutto della “precisione e efficacia che ci vuole pel bozzetto”. Una parlata Fucini imita di base pisana, con l’aggiunta qua e là di costrutti e parole particolari che interlocutori occasionali gli prospettano – il metodo lo stesso Fucini spiega a un interlocutore, in un’altra lettera qui acclusa.
Un linguaggio suo, di Fucini, alla Camilleri, ma di recupero e non d’invenzione, di parole e modi locali o perenti, che di fatto non è poi il “toscano” di Papini, Malaparte e Palazzeschi. Abbozzato nei “Sonetti di Neri Tanfucio”, 1872-1879, il libro d’esordio, che lesse man mano che li componeva nel salotto Peruzzi a Firenze in Borgo dei Greci, e in quello di Paolina Bicchierai, a palazzo Le Monnier, con riconoscimenti autorevoli, di Ferdinando Martini, de Amicis, Pietro Fanfani, Sonnino e Franchetti, che pubblicheranno poi queste “Veglie” a mano a mano che Fucini le scriveva, 1876-1881, nella loro “Rassegna settimanale”, e rapidamente lo portarono alla notorietà. Invitato a Napoli da Pasquale Villari, vi incontrò Giustino Fortunato e ne ricavò le ancora interessanti cronache “Napoli a occhio nudo”, 1878, anche queste pubblicate nella “Rassegna settimanale” - Franchetti e Sonnino erano molto attenti agli eventi al Sud.
Anche Tozzi negli stessi anni faceva un uso tutto suo della parlata senese, costrutti e terminologia, con un altro uso del gergo, drammatico e non zuzzurellone, giocoso. Questo è vero, si può stare qui con Cassola. Ma il repertorio di Fucini resta più vivace, e significante. Soprattutto non tipico.
Una curiosa riproposta, questa Bur, del 1979, introdotta da un Cassola furente. Incaricato di invitare alla lettura delle “Veglie” e del loro autore, termina con “l’ideale becero di cui Fucini era portatore”. Becero non solo lui, aggiunge Cassola: “Nesun filisteo era stato in armonia col suo tempo come Renato Fucini”. Il suo “toscano” è d’accatto, insiste Cassola, una lingua furba, il “toscanismo degli stenterelli” che irritava Carducci. E invece no.
Dalle “Veglie” non si direbbe, non sono né becere né reazionarie. In un racconto è detto “reazionario” il beghino merciaio che a un certo punto si scuote, sull’esempio del calzolaio di fronte socialista, e del prete mangione, e fa la rivoluzione. Il racconto borghese è uno solo, e il più lungo, ma è una satira, anche insistita. C’è molta pietas, per il destino delle ragazze, belle e liriche nell’adolescenza, condannate dalla vita inesorabile. Non ci sono padroni e servi. C’è qualche stereotipo, sul tipo dei camilleriani circoli dei notabili, ma nemmeno tanti. Soprattutto, rileggendole ora, non sono bozzetti, come si sono definite e si volevano: sono racconti. In ritardo forse su Capuana e De Roberto – e presto surclassati dal pirandellismo (ma Pirandello ha molte “veglie” al suo attivo, tra i racconti e anche tra i romanzi). Ma personaggi emergono e quadri veritieri, storicamente, quasi dei monumenti-documenti, “Vanno in Maremma”, “Tornano di Maremma”, la fame, la leva militare (una tragedia) - che dovrebbero stringere il cuore a chi ora, Citati, Calvino, ha conosciuto e usato quei posti per la bellezza e il riposo. Con poveri di sensibilità altrettanto grande che la fame e il freddo. Racconti comunque di campagna vera, non da giardinetto di seconda casa.
Racconti peraltro di un’Italia ancora viva, perfino nel linguaggio, involuto, chiuso, separato, tra l’Appennino pistoiese, la Lunigiana, la Maremma - dove pure si andava a cercare lavoro, nella malaria. In troppi luoghi ancora talmente povera che il più abbandonato e povero Sud ci fa figura di abbiente. Nella Maremma delle seconde case romane non più, ma sì ancora nella parte interna del grossetano, malgrado l’affluenza recente (le case rinnovate o costruite nuove, i luoghi di ritrovo, il wi-fi e la differenziata), e per la Garfagnana alpestre, o la Lunigiana, per quanto prospicienti aree di forte consumo qualitativo, perfino del lusso, della Versilia e del litorale apuano.
Renato Fucini, Le veglie di Neri, Bur, remainders, pp. 236 € 4
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