domenica 16 agosto 2020

Secondi pensieri - 427

zeulig

Amore – È un divenire, un costante inizio.
Condizionato, certo. Nelle forme che ha il nostro futuro, di essere dietro le spalle – il passato è il nostro presente-futuro: l’imprinting, la scoperta, la costruzione, seppure accidentale.
Un costante inizio tanto più in quanto accidentale, irriflesso.
 
Dialetto – Ritorna nel mondo globalizzato. Che sembra un controsenso ma non lo è. Nella letteratura no – nella narrazione, nella poesia è sempre stato di largo accesso. Nelle immagini sì, la caratterizzazione dei personaggi  a teatro e al cinema passa attraverso la lingua parlata, come tipizzazione linguistica, ma soprattutto come caratterizzazione dialettale. Specie in americano, per la multiforme etnicità e geografia, e in italiano, avendo l’unificazione perduto presto il carisma. Col ritorno, oggi, del napoletano, il siciliano, il lombardo, il veneto, anche il toscano, rispetto alla supplenza unificante esercitata dal romano (romano e non romanesco, l’italiano nella lettura romana), diffusa quando l’immagine era solo filmica (film a soggetto) e, se televisiva, della romanissima Rai.
Ritorna come espressione prima e primordiale, “naturale”, mentre s’indebolisce la lingua nazionale, canonica, in favore dell’inglese nella terminologia internet, elettronica, dell’immagine (film, video, foto, instagram, youtube…), commerciale, finanziaria (partendo dal conto corrente e la carta di credito). Il “glocale”, globale e locale, muove nel senso del locale: il globale è lingua delimitata, aggiornabile, ma legate ad alcune “cose”, il locale è “la” lingua, la forma espressiva.
Il global ha esautorato-indebolito la lingua, l’inglese ma anche la lingua nazionale, sempre più meri artifici tecnici. Si parla italiano per non dire, l’inglese come un qualsiasi strumento utile, un cacciavite o una pialla.  
 
Dialetto è la parola spesso “schietta”, di sonorità cioè che evocano-mimano-rappresentano realtà complesse – le realtà sono sempre complesse. “Linguaggio più colorito e spontaneo”, lo dice il linguista Antonelli. “Efficace”, aggiunge, per esempio negli hashtag , e quindi nei social, compreso il telegrafico twitter. Antonelli ricorda (“La Lettura”, 9 agosto) che una Giornata nazionale del dialetto è all’ottava edizione annuale, e che più campagne pubblicitarie si sono tenute all’insegna del dialetto. Culminando nelle “dielettichette” industriali: le etichette per esempio della Nutella con 135 espressioni dialettali di 16 diverse aree linguistiche, all’insegna: “Nutella parla come te”. Un campo comunicativo aperto da Sophia Loren nel lontano 1992, che a conclusione di un lungo spot su un certo prodotto, invece della battuta da copione tagliò corto con un “Accattatevillo”, compratevelo, un consiglio che in dialetto è più efficace perché sintetico e apparentemente più sincero.
 
Sophia Loren apriva un filone che Antonelli sintetizza così: “Una parola in dialetto vale più di 1.000 frasi o sinonimi in italiano”. Il rapporto è invertibile: sul piano dei contenuti, anche una parola italiana può valere più di 1.000 frasi o sinonimi in dialetto. Che spesso è conciso, ma non sempre - non per esempio in napoletano. Diverso è invece il potere evocativo del dialetto, all’interno della comunità dialettofona, che lo condivide. E quindi la sua capacità di comunicazione. E di caratterizzazione. Il caso è de “L’amica geniale”. Il romanzo rifiuta di programma ogni battuta dialettale, sia pure la più comune o innocua. Mentre il film tv si basa – gli sceneggiatori, tra essi soprattutto Francesco Piccolo,  rìtengono di necessità – sul dialetto. Ma allora non sulla parola-concetto, sulla parola-suono:  il  dialogo si vuole una sorta di accompagnamento musicale dell’immagine, spesso distorto o tronco nella pronuncia, come le parole all’opera, che per il significato rinvia alla didascalia, indirettamente alla cosa, specie le sensazioni indistinte o poco distinguibili (sinonimi).
 
La lingua nasce, si comporta, per riduzione e non per incremento? Per il fatto stesso di volersi-doversi (insegnamento, editoria, media) regolarizzare, classificare.
Sfumature – ricchezze – palpabili per esempio nei due casi ancora accetti del (ri)uso del dialetto, di Pasolini e Gadda: che si dice romanesco, ma è di fatto due romaneschi, uno impiegatizio di immigrazione recente e di semi-periferia (via Merulana è un centro non più centro, centro di immigrazione, allora ministeriale, nel dopoguerra), uno di borgata e giovanile. Due diversi ritmi, due pronunce, un vocabolario (parole) diverso, due linguaggi. Pertinenti – probabilmente, quién sabe – comunque significativi.
 
“La Lettura” ne ha segnalato l’altra settimana il ritorno come lingua più schietta, non artificiosa, seppure limitata, al campanile, alla classe sociale, al gruppo. Ma per ciò più “autentico”, in quanto “democratico”, alla portata-capacità dello scemo del gruppo o del villaggio. Lingua di strada, rione, quartiere in città, dove si è cresciutio. Roma ha una distinta loquela e parlata (sonorità, giro di frase) per Roma Nord e per Trastevere, o Testaccio, o Garbatella. Una maniera d’essere,che non si pensava si erigesse a lingua. O la lingua si sbriciola, riducendosi, fino all’incomunicabile, se non per grandi cenni-concetti, senza le sfumature.
Il ritorno del dialetto è una germinazione spontanea, non istituzionale (programmata, regolata), ma limitativa, anche di senso. Il dialetto non è produttivo se non per differenza da una lingua.
 
Realtà – Complessa sempre, e per questo mai chiara, univoca
 
Reazionario – Se ne perde la connotazione nella caduta della dialettica politica destra-sinistra. E nella semplificazione del linguaggio. È infatti concetto stratificato.
Carlo Cassola vuole Renato Fucini “reazionario” perché si occupa di mondi e locuzioni che vanno a scomparire. Ma non è questo il senso, questa è conservazione. Erano conservatori Franchetti e Sonnino, che con la “Rassegna settimanale” nella quale pubblicavano Fucini trattavano tutti i problemi sociali dell’Italia. Li decidevano da un punto di vista liberale, e quindi conservatore, ma non reazionario: non erano per il mantenimento di strutture perente, o squilibrate.
Uno dei racconti di Fucini ne dà bene la complessità, “Perla” (nelle “Veglie di Neri”). Una cagnetta smarrita, “di una razza molto rara”, vale una dozzina di carciofi per il barrocciaio che l’ha rinvenuta lercia e smarrita lungo la strada, e niente in casa del contadino che l’ha persa dal barrocciaio, una bocca inutile, “perché quando si doveva prendere un cane, dissero, era meglio prenderlo da caccia”, e viene eliminata. Vale invece 400 lire per il colonnello d’artiglieria, che è disposto a pagarle per riavere indietro la cagnetta e rimediare allo “stato di disperazione nel quale da tre giorni si trovava” la sua figliola. Il bisogno, la bocca in più da sfamare, si scontra col rispetto e l’amore degli animali, sia pure per il capriccio di una bambina. Il necessario col superfluo. Il povero col ricco. L’ignoranza anche con la civilizzazione. È l’ignoranza una colpa? E l’insensibilità quando si scontra col bisogno?
Il contadino, nel mondo di Fucini, tardo Ottocento, positivo e borghese, liberale anche illuminato, è reazionario. Ma lo è?

zeulig@antiit.eu

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