Secondi pensieri - 427
zeulig
Amore – È un divenire, un costante
inizio.
Condizionato, certo.
Nelle forme che ha il nostro futuro, di essere dietro le spalle – il passato è
il nostro presente-futuro: l’imprinting, la scoperta, la
costruzione, seppure accidentale.
Un costante inizio
tanto più in quanto accidentale, irriflesso.
Dialetto – Ritorna nel mondo
globalizzato. Che sembra un controsenso ma non lo è. Nella letteratura no – nella
narrazione, nella poesia è sempre stato di largo accesso. Nelle immagini sì, la
caratterizzazione dei personaggi a
teatro e al cinema passa attraverso la lingua parlata, come tipizzazione linguistica,
ma soprattutto come caratterizzazione dialettale. Specie in americano, per la
multiforme etnicità e geografia, e in italiano, avendo l’unificazione perduto
presto il carisma. Col ritorno, oggi, del napoletano, il siciliano, il
lombardo, il veneto, anche il toscano, rispetto alla supplenza unificante
esercitata dal romano (romano e non romanesco, l’italiano nella lettura romana),
diffusa quando l’immagine era solo filmica (film a soggetto) e, se televisiva,
della romanissima Rai.
Ritorna come
espressione prima e primordiale, “naturale”, mentre s’indebolisce la lingua nazionale,
canonica, in favore dell’inglese nella terminologia internet, elettronica, dell’immagine
(film, video, foto, instagram, youtube…), commerciale, finanziaria (partendo
dal conto corrente e la carta di credito). Il “glocale”, globale e locale,
muove nel senso del locale: il globale è lingua delimitata, aggiornabile, ma legate
ad alcune “cose”, il locale è “la” lingua, la forma espressiva.
Il global ha esautorato-indebolito la
lingua, l’inglese ma anche la lingua nazionale, sempre più meri artifici
tecnici. Si parla italiano per non dire, l’inglese come un qualsiasi strumento
utile, un cacciavite o una pialla.
Dialetto
è la parola spesso “schietta”, di sonorità cioè che evocano-mimano-rappresentano
realtà complesse – le realtà sono sempre complesse. “Linguaggio più colorito e
spontaneo”, lo dice il linguista Antonelli. “Efficace”, aggiunge, per esempio negli
hashtag , e quindi nei social, compreso
il telegrafico twitter. Antonelli ricorda (“La Lettura”, 9 agosto) che una
Giornata nazionale del dialetto è all’ottava edizione annuale, e che più campagne
pubblicitarie si sono tenute all’insegna del dialetto. Culminando nelle “dielettichette”
industriali: le etichette per esempio della Nutella con 135 espressioni dialettali
di 16 diverse aree linguistiche, all’insegna: “Nutella parla come te”. Un campo
comunicativo aperto da Sophia Loren nel lontano 1992, che a conclusione di un
lungo spot su un certo prodotto, invece della battuta da copione tagliò corto con
un “Accattatevillo”, compratevelo, un consiglio che in dialetto è più efficace
perché sintetico e apparentemente più sincero.
Sophia
Loren apriva un filone che Antonelli sintetizza così: “Una parola in dialetto
vale più di 1.000 frasi o sinonimi in italiano”. Il rapporto è invertibile: sul
piano dei contenuti, anche una parola italiana può valere più di 1.000 frasi o
sinonimi in dialetto. Che spesso è conciso, ma non sempre - non per esempio in
napoletano. Diverso è invece il potere evocativo del dialetto, all’interno
della comunità dialettofona, che lo condivide. E quindi la sua capacità di comunicazione.
E di caratterizzazione. Il caso è de “L’amica geniale”. Il romanzo rifiuta di
programma ogni battuta dialettale, sia pure la più comune o innocua. Mentre il
film tv si basa – gli sceneggiatori, tra essi soprattutto Francesco
Piccolo, rìtengono di necessità – sul
dialetto. Ma allora non sulla parola-concetto, sulla parola-suono: il
dialogo si vuole una sorta di accompagnamento musicale dell’immagine,
spesso distorto o tronco nella pronuncia, come le parole all’opera, che per il
significato rinvia alla didascalia, indirettamente alla cosa, specie le
sensazioni indistinte o poco distinguibili (sinonimi).
La
lingua nasce, si comporta, per riduzione e non per incremento? Per il fatto
stesso di volersi-doversi (insegnamento, editoria, media) regolarizzare,
classificare.
Sfumature
– ricchezze – palpabili per esempio nei due casi ancora accetti del (ri)uso del
dialetto, di Pasolini e Gadda: che si dice romanesco, ma è di fatto due romaneschi,
uno impiegatizio di immigrazione recente e di semi-periferia (via Merulana è un
centro non più centro, centro di immigrazione, allora ministeriale, nel dopoguerra), uno di borgata e giovanile. Due
diversi ritmi, due pronunce, un vocabolario (parole) diverso, due linguaggi.
Pertinenti – probabilmente, quién sabe –
comunque significativi.
“La Lettura” ne ha segnalato l’altra
settimana il ritorno come lingua più schietta, non artificiosa, seppure
limitata, al campanile, alla classe sociale, al gruppo. Ma per ciò più
“autentico”, in quanto “democratico”, alla portata-capacità dello scemo del gruppo
o del villaggio. Lingua di strada, rione, quartiere in città, dove si è
cresciutio. Roma ha una distinta loquela e parlata (sonorità, giro di frase)
per Roma Nord e per Trastevere, o Testaccio, o Garbatella. Una maniera d’essere,che
non si pensava si erigesse a lingua. O la lingua si sbriciola, riducendosi,
fino all’incomunicabile, se non per grandi cenni-concetti, senza le sfumature.
Il ritorno del dialetto è una
germinazione spontanea, non istituzionale (programmata, regolata), ma limitativa,
anche di senso. Il dialetto non è produttivo se non per differenza da una
lingua.
Realtà – Complessa
sempre, e per questo mai chiara, univoca
Reazionario – Se ne perde la
connotazione nella caduta della dialettica politica destra-sinistra. E nella
semplificazione del linguaggio. È infatti concetto stratificato.
Carlo
Cassola vuole Renato Fucini “reazionario” perché si occupa di mondi e locuzioni
che vanno a scomparire. Ma non è questo il senso, questa è conservazione. Erano
conservatori Franchetti e Sonnino, che con la “Rassegna settimanale” nella
quale pubblicavano Fucini trattavano tutti i problemi sociali dell’Italia. Li
decidevano da un punto di vista liberale, e quindi conservatore, ma non reazionario:
non erano per il mantenimento di strutture perente, o squilibrate.
Uno
dei racconti di Fucini ne dà bene la
complessità, “Perla” (nelle “Veglie di Neri”). Una cagnetta smarrita, “di una
razza molto rara”, vale una dozzina di carciofi per il barrocciaio che l’ha
rinvenuta lercia e smarrita lungo la strada, e niente in casa del contadino che
l’ha persa dal barrocciaio, una bocca inutile, “perché quando si doveva
prendere un cane, dissero, era meglio prenderlo da caccia”, e viene eliminata.
Vale invece 400 lire per il colonnello d’artiglieria, che è disposto a pagarle
per riavere indietro la cagnetta e rimediare allo “stato di disperazione nel
quale da tre giorni si trovava” la sua figliola. Il bisogno, la bocca in più da
sfamare, si scontra col rispetto e l’amore degli animali, sia pure per il
capriccio di una bambina. Il necessario col superfluo. Il povero col ricco. L’ignoranza
anche con la civilizzazione. È l’ignoranza una colpa? E l’insensibilità quando
si scontra col bisogno?
Il
contadino, nel mondo di Fucini, tardo Ottocento, positivo e borghese, liberale
anche illuminato, è reazionario. Ma lo è?
zeulig@antiit.eu
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