L’amore amato
“Cominciò con un colpo di fulmine, tutto sesso, sazietà e
silenzio. Dal caffè degli specchi, nelle vecchie Halles, a casa di Marta, la
mano nella mano, i corpi che si strusciavano, si sfregavano, si eccitavano.
Allora usava così. Oggi il quartiere è riservato, c’è lo shopping, masse di persone che si soddisfano con le cose. Allora
amarsi faceva scandalo e tenerezza. Furono amori violenti, appena chiusa la porta,
sfrenati, lenti, lunghi, ripresi, è incredibile la carica che i corpi
contengono, ogni centimetro, ogni fibra, ogni poro, ogni pelo, ogni goccia
segreta. Prima di riemergere la domenica mattina come ubriachi al Marais, al
sole che era luminoso anche se forse non c’era, caldo, amico, ai croissant croccanti, al caffè bollente,
agli sguardi d’invidia o solidali, gli occhi fissi negli occhi, carichi di
dolcezza e di promesse, prima che ripartisse per il suo paese”.
Di quel primo incontro ricordo tutto, come i buoni attori di
teatro conoscono le pieghe di Amleto, di Desdemona. Le sue mai elastiche, tale
era l’elettricità che sprigionavano e la sapienza nell’avvolgere il mio corpo,
il corpo solido e agile insieme, che attirava come un forno caldo, lo sguardo
ora scrutatore ora assente in un suo profondo turbamento, disponibile,
instancabile. Si dice che sia l’occhio scuro a dare queste sensazioni, rispetto
alla svagatezza di noi chiari, ma è invece l’attenzione, o l’intenzione, amare
l’amore, che fa la differenza col resto dell’umanità, con chi è afflitto da
altri pensieri, primo fra tutti non spendersi. Ci siamo scritti poco, allora
usava scriversi, telefonato ancora meno, quando il telefono ha soppiantato la
posta, ci siamo trovati sempre.
“Ci siamo ritrovati ovunque, direi quasi senza dircelo. A
Parigi, per una settimana fervorosa di chiacchiere, visitando mostre,
ristoranti scelti con le guide, caffè, librerie, io in albergo, lei dalla sua
amica, sempre provvidenzialmente assente. A Firenze una lunga vacanza di passeggiate
per le colline in primavera, allora ancora si poteva, per le gallerie, le
trattorie, le fabbriche artigiane, e amori quieti, coniugali. In Corsica una
vacanza selvaggia di navigazione in solitario, tanto mare, tanto vento, tanta
rinvigorente stanchezza. A Milano e a Francoforte per lavoro, tra appuntamenti
al minuto pieni di cose precise, un ritrovarsi fraterno e molte chiacchiere in
gruppo, il lavoro stimola competizione e sociev-lezza. O quella volta stregata
in Sicilia, nel mese di maggio, senza pause e senza tempo, tra spostamenti
veloci in auto fra i luoghi della molteplice civiltà, in cui non smisi un
minuto di sentire il suo sesso ardere attorno e lavorarmi dentro, su per ogni
fibra, una frenesia, un desiderio che si moltiplicava ed esplodeva nei momenti
d’intimità senza consumarsi”.
Cosa facesse non lo so. L’ho sempre saputo, ma la sua
attività non era importante, non saprei definirla in dettaglio. Si muoveva nei
paesi nordici, sono il suo mondo. Quando ha lasciato Copenhagen per Stoccolma,
dove ha creato lo studio di design,
siamo stati insieme per un lungo periodo. Io viaggiavo su Londra, Amsterdam,
Bruxelles, per l’attività finanziaria che allora esercitavo, e sempre lo
ritrovavo come a casa. Non soffriva il riserbo e la lingua, anzi diceva che gli
svedesi parlano con molte vocali come gli italiani, né il clima grigio e umido,
e apprezzava il silenzio perché, diceva, “si può sempre pensare che sia
filosofico”. Egli stesso ama passare lunghe ore in contemplazione, silenzioso.
“Ma non penso”, si schermisce, “lascio passare il tempo”. Apprezzava perfino la
cucina, con la solita osservazione distensiva: “I napoletani hanno insegnato
anche a Stoccolma l’uso dei sapori e della frutta”.
“Abbiamo fatto lunghe corse per le autostrade di tutta
Europa, con macchine ora scattanti ora comode e silenziose, ora enormi ora minime.
E sempre, dove si è potuto, al vento. Lo spider,
anche il cabriolet, moltiplica le
vibrazioni della corsa, come un cavallo vero senza rompere la schiena. Quelli
inglesi hanno pure il rombo. Che come l’aria inebria, intensifica la voglia di piacere e di godere.
Una volta in Svizzera, all’aperto in una trattoria su un poggio in montagna
esposto al sole, lungo l’autostrada del San Bernardino, un giorno tiepido, fu
tale lo stimolo nervoso e l’intesa che abbiamo fatto l’amore senza toccarci.
Non è esibizionismo, mi creda, o rigurgito senile di oscenità. Né è una visione
il ricordo che ne ho, che ho vissuto. È, era, un modo d’essere. Le sue
sensazioni erano le mie, ne sono certo, non mi sono mai sbagliato. Non c’erano
stacchi nella nostra intimità, malgrado i lunghi intervalli, la relazione era
governata da un’occulta regia con sincronia perfetta”.
I primi tempi è stato per un periodo a Roma, dove l’ansia si
pose inevitabile del “che fare?”, delle decisioni che non avrei saputo
prendere. Ma anche in quello stato
d’animo la voglia d’amare non è mai stata incrinata. L’ultima volta abbiamo
sciato sul Matterhorn, lunghe passeggiate di fondo, poiché le ginocchia non tengono
più, ma i nervi, la meccanica del cervello, sono sempre in funzione. Cotti dal
sole e dal freddo, su e giù per i sentieri fuori pista, tra schnaps e le chiacchiere ripetute sui
destini del mondo. Anche se non ho mai capito la passione per la politica.
Preferisce la montagna, si sta bene sul solido. Anche a lui il mare piace,
l’acqua, i colori, la luce, la brezza, ma diffidandone.
“Era divenuta manierata, in pubblico e anche in privato, un
atteggiamento che gli italiani prendono, ho notato, per difendersi dall’età.
Per difendersi, con gli anni, dagli altri. Era divenuta, diceva, grassa come
una buona vichinga. Ma queste osservazioni sono sempre state fra di noi niente
più che un tentativo di ancorarci ai fatti e alle cose comuni, al linguaggio di
tutti. Un anticlimax di cui talvolta
si ha bisogno contro la tensione che il rapporto a due isolato acuisce. Non
ricordo un litigio, malgrado la passione a volte furiosa, la diversità di
formazione, di opinioni, di esperienze. Perché litigare, che senso ha? Il
piacere è stato sempre rinnovato di ritrovarsi”.
La stanchezza lui l’annegava nei suoi silenzi filosofici, io
nella solitudine istintiva. Chi era, chi era stato, chi ero io, sì, forse è un
problema, ma non ci ha preso più di occasionali puntualizzazioni. Come ogni
altra divagazione utile a scaricare la tensione, amarsi può essere a momenti
soffocante. Sul tono del fiabesco e per il piacere della narrazione: s’è fatto
una divisa di evitare il marcio della vita e credo che abbia ragione, non c’è
bisogno di esibire miserie. L’amore è anche questo, darsi il profilo migliore.
“È così che la notizia della sua morte non apre drammi, mi
creda, e non ne aprirà. È un’emozione che non sconvolge il mio, il nostro, assetto.
Neanche l’annuncio ritardato, e solo a quanto sembra per motivi pratici, che
lei mi dà mi amareggia. Quello che aveva da dirmi l’ha detto a me. Sa come ci
siamo conosciuti al caffè degli Specchi, o come si chiamava, delle Halles che
non ci sono più? Come se ci conoscessimo. E così sarà ora, dopo, lei non mi ha
lasciato. Ci saranno altri appuntamenti, non so quando per la solita vecchia
abitudine dell’informalità, questa lettere potrebbe esserne uno, ma non mancheranno”.
Piegò le carte, la
lettera dello sconosciuto, l’appunto della madre, e decise di non dire nulla al
padre. Le storie pesano sempre, di rammarico, d’invidia, anche se passate. La
lettera sembrava interminabile, come se altri lunghi pezzi fossero rimasti
fuori, non letti o rimossi, avvolgente. E qualcosa c’era sempre ancora da
leggere:
“Non mi sento
deprivato. Aveva marito, figli? Non è cosa che mi turbi, né avrebbe avuto per
noi mai rilievo. Non ci sono questioni pratiche possibili, non c’era un mio e
un suo, neanche nelle cose. Non so se questi sono argomenti validi per le leggi
del suo paese ma così è. L’identificazione esclude il possesso. E anche
l’addio. So che non mancherà il nostro prossimo incontro, non abbiamo bisogno
di definire i dettagli”.
Ci sono presenze irreali.
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