Letture - 433
letterautore
Fenoglio- Lorenzo Mondo,
che lo ha per primo e a lungo pubblicato postumo, ne apprezza con Gnoli sul “Robinson”
“il rigore morale”: “Un rigore attinto dagli scrittori puritani inglesi. Amava
«Cime tempestose» e adorava Coleridge di cui tradusse «La ballata del vecchio amrinaio»”.
La conversazione Mondo conclude con un ricordo: “Ho sofferto davanti
alla sufficienza con cui Norberto Bobbio parlava di Pavese e Fenoglio”.
Francese – È lingua
femminile? Anatole France, “Le crime de Sylvestre Bonnard”, si dice attraverso
il personaggio: “La voce delle signore di Francia è la più gradevole al mondo.
Gli stranieri, come noi, sono sensibili al suo fascino”. Con un testimone a
sorpresa: “Filippo di Bergamo ha detto, nel 1483, di Giovanna la Pulzella: «Il
suo linguaggio era tanto dolce quanto quello delle donne del suo Paese»”.
Filippo, o Filippino, di Bergamo è il dimenticato autore di uno “Speculum
regiminis”, un primo trattato di sociologia politica, in prosa e in versi, un
best-seller del secondo Trecento malgrado il altino, che andò presto a stampa.
Italia – Gor’kij da Capri
la vedeva così, “Racconti d’Italia”, 1910 circa: “Qui sono sopraffatto da una
leggerezza mentale; qui vien voglia di scrivere dei vaudevilles, sì, dei vaudevilles
con canzonette. Qui la vita non è reale.
È un’opera. Qui non si pensa, si canta: Romeo, Otello e tanti eroi del genere.
È stato Shakespeare a crearli. Gli italiani sono incapaci di scrivere tragedie.
Qui non avrebbero potuto nascere né Byron né Poe”.
Gor’kij ha vissuto in Italia circa vent’anni, dal 1906 al 1913 a Capri,
dove ospitò tra gli altri un paio di volte Lenin ,e dal 1921 al 1933 a
Sorrento. A Capri organizzò pure una scuola politica per fuoriusciti. E scrisse
“Racconti italiani”. Ma non padroneggiava l’italiano. Molti privilegiano
l’Italia come una colonia: se l’aria è buona, costa poco, e si è serviti.
“È dissimetrica” invece per Sartre, che scrisse molto della sua vacanza
a Roma, Napoli e Venezia nel settembre del 1951 (duecento pagine sono nel
volume “La regina Albemarle o l’ultimo turista”), in compagnia felice di Michelle
Vian, la moglie di Boris Vian, a proposito della piazzetta San Marco a Venezia
e delle due colonne, quella col leone di bronzo e quella con san Teodoro: “Sono
dissimmetriche come la piazza San Marco, come tutto in Italia, ed è la dissimmetria
che amiamo” – a Ruskin che la lamentava dà del “pederasta”.
Ma anche, velocemente, il filosofo trova gli italiani, “drogati,
dopati”, per via dei carboidrati di cui si nutrono.
O silenziosi. Sì: aspettando a Venezia il vaporetto in compagnia di “dodici
ragazzetti miserabili che tornano a casa con le cartelle”, “rotte e sporche”,
li trova “gai ma non troppo gai. Un
po’ rumorosi all’inizio, poi si calmano, ricadono in questo silenzio italiano
di cui non è mai veramente parlato, silenzio di emigranti fatto di fatica e
fatalismo, di pazienza anche”.
E disinvolta – anche Sartre scopre in Italia la disinvoltura, come
già Ernst Jünger a proposito di tedeschi e italiani. Sia a Napoli che a Roma e
a Venezia: “Le donne italiane hanno conservato il naturale di Stendhal. Ammiro
come sanno entrare al ristorante, al dancing. Le nostre cercano un
atteggiamento. Loro no. Gli uomini pure. Quando vedo un uomo severo dai capelli
pettinati con austerità e che gioca alla noia distinta dei forti, l’uomo d’azione
al riposo, penso che è un francese. Nove volte su dieci ho ragione. Visti dall’Italia,
come facciamo nordico!”
“Accessibile”, la dice ancora Sartre: “L’Italia è all’aperto. Accessibile
a tutti. Il passato è nelle pietre”.
E non provinciale, ma per un motivo preciso Ci vuole centralizzazione
e predominanza della captale, in breve unità, perché ci sia provincia.
Provincia di che: Milano, Firenze, Roma?” Poi la risolve così: “Mezza provincia,
mezza principato” (“L’Italia è un’altra cosa. Che deve spiegarsi da sé. Mezza
provincia, mezza principato”).
Lazzarone - Protagonista
del primo Dumas napoletano, “Il corricolo”, 1836, gli deve l’immortalità, un
tentativo di definizione lungo quattro pagine: il lazzarone non ha padrone, non
ha leggi, è al di fuori di tutte le esigenze sociali, dorme quando ha sonno,
mangia quando ha fame, beve quando ha sete. Gli altri popoli si riposano quando
sono stanchi di lavorare: lui, invece, quando è stanco di riposare lavora.
Lavora, ma non di quel lavoro del Nord”, in miniera, nei campi, sui tetti e sui
muri, “bensì di quel lavoro giocondo, spensierato, trapunto di canzoni e di
lazzi, sempre interrotto dalla risata che mostra i suoi denti bianchi, e dalla
pigrizia che rilascia le sue braccia; di quel lavoro che dura un’ora, una
mezz’ora, dieci minuti, un istante…”.
E “che cos’è questo lavoro? Dio solo lo sa”.
Napoleone – Italiano anche
per Conan Doyle, ma per motivi particolarissimi (“Through the Magic Door”, cap. IX): “Napoleone lasciò un legato
in un codicillo del testamento a un uomo che aveva tentato di assassinare Wellington.
Ecco qui di nuovo l’italiano medievale! Non era più corso di un inglese che
nato in India si dica indù. Si leggano le vite dei Borgia, degli Sforza, dei
Medici, di tutti gli appassionati, crudeli, tolleranti, amanti dell’arte, despoti
di talento dei piccoli Stati italiani, inclusa Genova, da dove i Bonaparte erano
emigrati. Qui in un solo colpo si ottiene la vera discendenza dell’uomo, con
tutte le stigmate chiare su di lui – la calma fuori, la passione dentro, lo
strato di neve sopra il vulcano, tutto ciò che caratterizzò i vecchi despoti
della sua terra nativa, gli allievi di Machiavelli, ma elevati a genio”.
Roma – Sartre a Roma a
settembre del 1951 è ossessionato dal “vuoto della casa romana”. In visita da Carlo
Levi a palazzo Altieri in piazza del Gesù non fa che rilevare il vuoto, del palazzo, e
dell’appartamento, “l’insaziabile vuoto romano”, sotto il bric-à-brac, “lo
spazio puro” – “L. è il primo Romano che
non mi sembra avere il gusto del vuoto”.. Il “vuoto” interno come opposto al
pieno delle strade, dei vicoli, la vera casa dei romani, “saloni-salotti intimi
dove si può passeggiare, senza essere fuori posto, in pantofole e giacca da
camera” (“Visita a Carlo Levi”, in “La regina Albemarle o l’ultimo turista”). Anche
se, aggiunge (“Un parterre di cappuccini”, nella stessa raccolta), “questa
città di terra è più sola in mezzo alle terre che una barca sul mare”.
Ma a Roma Sartre dà un’identità fissa. Anche sotto la pioggia: “Sotto
la pioggia, tutte le grandi città si rassomigliano, Parigi non è più a Parigi,
né Londra a Londra: ma Roma resta a Roma”. Per un motivo semplice: “L’Antichità
vive a Roma, di una vita odiosa e magica,
perché le si è impedito di morire del tutto per tenerla in schiavitù” – un
“ordine “ delle rovine “conservato dall’alcol dell’odio cristiano”.
Città “lucida”, la dice anche Sartre: “Roma si contorce su se stessa,
si vede, si guarda da tutte le parti, è una città di lucidità come New York:
perpetuamente si fa il punto”.
Stenterellesco - Gadda
lo irrideva di comuni amici, andando in gita in fregola nello spider col
giovane Parise, due non toscani. All’ombra però di Carducci, pure nostalgico
oltre che toscano, che “Davanti a san Guido” biasima(va) “la favella toscana,
ch’è si sciocca\ Nel manzonismo de gli stenterelli”.
letterautore@antiit.eu
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