lunedì 21 settembre 2020

Letture - 433

letterautore

Fenoglio- Lorenzo Mondo, che lo ha per primo e a lungo pubblicato postumo, ne apprezza con Gnoli sul “Robinson” “il rigore morale”: “Un rigore attinto dagli scrittori puritani inglesi. Amava «Cime tempestose» e adorava Coleridge di cui tradusse «La ballata del vecchio amrinaio»”.

La conversazione Mondo conclude con un ricordo: “Ho sofferto davanti alla sufficienza con cui Norberto Bobbio parlava di Pavese e Fenoglio”.
 
Francese
– È lingua femminile? Anatole France, “Le crime de Sylvestre Bonnard”, si dice attraverso il personaggio: “La voce delle signore di Francia è la più gradevole al mondo. Gli stranieri, come noi, sono sensibili al suo fascino”. Con un testimone a sorpresa: “Filippo di Bergamo ha detto, nel 1483, di Giovanna la Pulzella: «Il suo linguaggio era tanto dolce quanto quello delle donne del suo Paese»”. Filippo, o Filippino, di Bergamo è il dimenticato autore di uno “Speculum regiminis”, un primo trattato di sociologia politica, in prosa e in versi, un best-seller del secondo Trecento malgrado il altino, che andò presto a stampa. 
 
Italia – Gor’kij da Capri la vedeva così, “Racconti d’Italia”, 1910 circa: “Qui sono sopraffatto da una leggerezza mentale; qui vien voglia di scrivere dei vaudevilles, sì, dei vaudevilles con canzonette.  Qui la vita non è reale. È un’opera. Qui non si pensa, si canta: Romeo, Otello e tanti eroi del genere. È stato Shakespeare a crearli. Gli italiani sono incapaci di scrivere tragedie. Qui non avrebbero potuto nascere né Byron né Poe”.
Gor’kij ha vissuto in Italia circa vent’anni, dal 1906 al 1913 a Capri, dove ospitò tra gli altri un paio di volte Lenin ,e dal 1921 al 1933 a Sorrento. A Capri organizzò pure una scuola politica per fuoriusciti. E scrisse “Racconti italiani”. Ma non padroneggiava l’italiano. Molti privilegiano l’Italia come una colonia: se l’aria è buona, costa poco, e si è serviti.
 
“È dissimetrica” invece per Sartre, che scrisse molto della sua vacanza a Roma, Napoli e Venezia nel settembre del 1951 (duecento pagine sono nel volume “La regina Albemarle o l’ultimo turista”), in compagnia felice di Michelle Vian, la moglie di Boris Vian, a proposito della piazzetta San Marco a Venezia e delle due colonne, quella col leone di bronzo e quella con san Teodoro: “Sono dissimmetriche come la piazza San Marco, come tutto in Italia, ed è la dissimmetria che amiamo” – a Ruskin che la lamentava dà del “pederasta”.
Ma anche, velocemente, il filosofo trova gli italiani, “drogati, dopati”, per via dei carboidrati di cui si nutrono.
O silenziosi. Sì: aspettando a Venezia il vaporetto in compagnia di “dodici ragazzetti miserabili che tornano a casa con le cartelle”, “rotte e sporche”, li trova “gai ma non troppo gai. Un po’ rumorosi all’inizio, poi si calmano, ricadono in questo silenzio italiano di cui non è mai veramente parlato, silenzio di emigranti fatto di fatica e fatalismo, di pazienza anche”.
 
E disinvolta – anche Sartre scopre in Italia la disinvoltura, come già Ernst Jünger a proposito di tedeschi e italiani. Sia a Napoli che a Roma e a Venezia: “Le donne italiane hanno conservato il naturale di Stendhal. Ammiro come sanno entrare al ristorante, al dancing. Le nostre cercano un atteggiamento. Loro no. Gli uomini pure. Quando vedo un uomo severo dai capelli pettinati con austerità e che gioca alla noia distinta dei forti, l’uomo d’azione al riposo, penso che è un francese. Nove volte su dieci ho ragione. Visti dall’Italia, come facciamo nordico!”
 
“Accessibile”, la dice ancora Sartre: “L’Italia è all’aperto. Accessibile a tutti. Il passato è nelle pietre”.
E non provinciale, ma per un motivo preciso Ci vuole centralizzazione e predominanza della captale, in breve unità, perché ci sia provincia. Provincia di che: Milano, Firenze, Roma?” Poi la risolve così: “Mezza provincia, mezza principato” (“L’Italia è un’altra cosa. Che deve spiegarsi da sé. Mezza provincia, mezza principato”).
 
Lazzarone - Protagonista del primo Dumas napoletano, “Il corricolo”, 1836, gli deve l’immortalità, un tentativo di definizione lungo quattro pagine: il lazzarone non ha padrone, non ha leggi, è al di fuori di tutte le esigenze sociali, dorme quando ha sonno, mangia quando ha fame, beve quando ha sete. Gli altri popoli si riposano quando sono stanchi di lavorare: lui, invece, quando è stanco di riposare lavora. Lavora, ma non di quel lavoro del Nord”, in miniera, nei campi, sui tetti e sui muri, “bensì di quel lavoro giocondo, spensierato, trapunto di canzoni e di lazzi, sempre interrotto dalla risata che mostra i suoi denti bianchi, e dalla pigrizia che rilascia le sue braccia; di quel lavoro che dura un’ora, una mezz’ora, dieci minuti, un istante…”.
E “che cos’è questo lavoro? Dio solo lo sa”.
 
Napoleone – Italiano anche per Conan Doyle, ma per motivi particolarissimi (“Through the Magic  Door”, cap. IX): “Napoleone lasciò un legato in un codicillo del testamento a un uomo che aveva tentato di assassinare Wellington. Ecco qui di nuovo l’italiano medievale! Non era più corso di un inglese che nato in India si dica indù. Si leggano le vite dei Borgia, degli Sforza, dei Medici, di tutti gli appassionati, crudeli, tolleranti, amanti dell’arte, despoti di talento dei piccoli Stati italiani, inclusa Genova, da dove i Bonaparte erano emigrati. Qui in un solo colpo si ottiene la vera discendenza dell’uomo, con tutte le stigmate chiare su di lui – la calma fuori, la passione dentro, lo strato di neve sopra il vulcano, tutto ciò che caratterizzò i vecchi despoti della sua terra nativa, gli allievi di Machiavelli, ma elevati a genio”.
 
Roma – Sartre a Roma a settembre del 1951 è ossessionato dal “vuoto della casa romana”. In visita da Carlo Levi a palazzo Altieri in piazza del Gesù  non fa che rilevare il vuoto, del palazzo, e dell’appartamento, “l’insaziabile vuoto romano”, sotto il bric-à-brac, “lo spazio puro” – “L.  è il primo Romano che non mi sembra avere il gusto del vuoto”.. Il “vuoto” interno come opposto al pieno delle strade, dei vicoli, la vera casa dei romani, “saloni-salotti intimi dove si può passeggiare, senza essere fuori posto, in pantofole e giacca da camera” (“Visita a Carlo Levi”, in “La regina Albemarle o l’ultimo turista”). Anche se, aggiunge (“Un parterre di cappuccini”, nella stessa raccolta), “questa città di terra è più sola in mezzo alle terre che una barca sul mare”.
Ma a Roma Sartre dà un’identità fissa. Anche sotto la pioggia: “Sotto la pioggia, tutte le grandi città si rassomigliano, Parigi non è più a Parigi, né Londra a Londra: ma Roma resta a Roma”. Per un motivo semplice: “L’Antichità vive a Roma, di una vita odiosa e magica, perché le si è impedito di morire del tutto per tenerla in schiavitù” – un “ordine “ delle rovine “conservato dall’alcol dell’odio cristiano”. 
Città “lucida”, la dice anche Sartre: “Roma si contorce su se stessa, si vede, si guarda da tutte le parti, è una città di lucidità come New York: perpetuamente si fa il punto”.

 
Stenterellesco - Gadda lo irrideva di comuni amici, andando in gita in fregola nello spider col giovane Parise, due non toscani. All’ombra però di Carducci, pure nostalgico oltre che toscano, che “Davanti a san Guido” biasima(va) “la favella toscana, ch’è si sciocca\ Nel manzonismo de gli stenterelli”.

letterautore@antiit.eu

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