lunedì 21 settembre 2020

Nostalgia di Gerusalemme città aperta

“Sono diventato scrittore anche perché vengo da una famiglia dal cuore a pezzi”. Amos Oz, 76  anni quando scriveva questo pamphlet, ha una memoria lunga, una memori diversa. Del mondo e di Gerusalemme, cioè di Israele. “Tutti i miei parenti, sia per parte di padre sia per parte di madre, erano degli europei devoti”, è la second frase: “In sostanza, dei grandi appassionati dell’Europa. Conoscevano lingue svariate, e varie culture; nutrivano una inesausta infatuazione per l’Europa”. Erano in Israele per compiere un pellegrinaggio, cercare un ritrovamento. Senza preclusioni o esclusioni, Gerusalemme era una città già abitata. Parlavano tolstojano, si sentivano dostoevskjani, un po’ maledetti, vivevano nella nostalgia cechoviama di “Mosca” – “che poteva essere Berlino, o Parigi o Varsavia o chissà che altro”.
Oz sempre celebra nostalgico la sua Gerusalemme, dove è nato nel 1939. Da genitori variamente emigrati, dalla Russia alla Polonia e in Israele. Sempre e comunque indefettibilmente europei. Come tutti i parenti e conoscenti. Anzi, gli unici “europei d’Europa”, mentre gli altri si dividono per etnie – detto per celia, ma non senza fondamento: due tribù in Cecoslovacchia, cechi e slovacchi, più una terza di cecoslovacchi, “cioè noi”, nove diverse in Jugoslavia, più una jugoslava, “cioè noi”, tre in Gran Bretagna ma una sola di britannici, “cioè noi”.… Con un padre “in grado di leggere sedici o diciassette lingue”, undici delle quali parlava correntemente, “sebbene con un forte accento russo”, e la madre sei o sette.
La storia di Israele lo ha deluso, e il ricordo scherzoso conclude amaro: “A dove apparteniamo, dunque? Forse non apparteniamo affatto”. Ma, criticato e anche osteggiato, non rinuncia a chiedere la pace, “un compromesso”. Prova anche a svelenire l’impasse odierno. Sintomatico vuole l’aneddoto, che racconta lungamente, della notte prima dell’attacco nelle guerra vittoriosa dei Sei Giorni. Una lite continua al campo, tra generali, ufficiali, graduati e soldati semplici del reparto, su ogni insipido argomento: in Israele piace litigare. Ma dalla sua operosa vita, più lunga di quella di Israele, deriva solo incomprensioni e delusioni. Tra queste quella di aver perduto la sua città. La sua Gerusalemme non riconoscendo più in quella post-1967, abbattuta e accresciuta. Un tempo e una città in cui le tribù e le fedi convivevano, sebbene fossero del tipo esclusivo, che ognuno pensava di averne l’unica: “In ogni quartiere si pregava in modo diverso, si parlava una lingua diversa, e ci si abbigliava diversamente”. Però “comunicavano”: una città a più anime, non in guerra.
Oz resta uno che non si è adattato alla nuova Gerusalemme, capitale d’Israele. La sua Gerusalemme è un’altra. Richiamato nell’esercito nella guerra dei Sei Giorni, ha visto e poi documentato molte cose che non gli sono piaciute. E tuttora non sa entrare nei panni dei “coloni israeliani in Cisgiordania”.
Ma non dispera. Saprà bene che il piatto rotto non si ricompone, ma non dispera di un compromesso – sono gli anni di Netanyahu, che pure dovrebbero finire: “Il compromesso è considerato una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. Dove c’è vita ci sono compromessi”.
Una proposta di buona volontà, debole. Anche se è vero: “Il contrario di compromesso non è integrità, e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione, devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”.
Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, pp. 78 € 7





Nessun commento:

Posta un commento