Nostalgia di Gerusalemme città aperta
“Sono diventato
scrittore anche perché vengo da una famiglia dal cuore a pezzi”. Amos Oz,
76 anni quando scriveva questo pamphlet, ha una memoria lunga, una
memori diversa. Del mondo e di Gerusalemme, cioè di Israele. “Tutti i miei
parenti, sia per parte di padre sia per parte di madre, erano degli europei
devoti”, è la second frase: “In sostanza, dei grandi appassionati dell’Europa.
Conoscevano lingue svariate, e varie culture; nutrivano una inesausta
infatuazione per l’Europa”. Erano in Israele per compiere un pellegrinaggio,
cercare un ritrovamento. Senza preclusioni o esclusioni, Gerusalemme era una
città già abitata. Parlavano tolstojano, si sentivano dostoevskjani, un po’
maledetti, vivevano nella nostalgia cechoviama di “Mosca” – “che poteva essere
Berlino, o Parigi o Varsavia o chissà che altro”.
Oz sempre celebra
nostalgico la sua Gerusalemme, dove è nato nel 1939. Da genitori variamente
emigrati, dalla Russia alla Polonia e in Israele. Sempre e comunque
indefettibilmente europei. Come tutti i parenti e conoscenti. Anzi, gli unici
“europei d’Europa”, mentre gli altri si dividono per etnie – detto per celia,
ma non senza fondamento: due tribù in Cecoslovacchia, cechi e slovacchi, più
una terza di cecoslovacchi, “cioè noi”, nove diverse in Jugoslavia, più una jugoslava, “cioè noi”, tre in Gran Bretagna ma una sola di britannici, “cioè
noi”.… Con un padre “in grado di leggere sedici o diciassette lingue”, undici
delle quali parlava correntemente, “sebbene con un forte accento russo”, e la
madre sei o sette.
La storia di Israele lo
ha deluso, e il ricordo scherzoso conclude amaro: “A dove apparteniamo, dunque?
Forse non apparteniamo affatto”. Ma, criticato e anche osteggiato, non rinuncia
a chiedere la pace, “un compromesso”. Prova anche a svelenire l’impasse odierno. Sintomatico vuole
l’aneddoto, che racconta lungamente, della notte prima dell’attacco nelle
guerra vittoriosa dei Sei Giorni. Una lite continua al campo, tra generali,
ufficiali, graduati e soldati semplici del reparto, su ogni insipido argomento:
in Israele piace litigare. Ma dalla sua operosa vita, più lunga di quella di
Israele, deriva solo incomprensioni e delusioni. Tra queste quella di aver
perduto la sua città. La sua Gerusalemme non riconoscendo più in quella
post-1967, abbattuta e accresciuta. Un tempo e una città in cui le tribù e le
fedi convivevano, sebbene fossero del tipo esclusivo, che ognuno pensava di
averne l’unica: “In ogni quartiere si pregava in modo diverso, si parlava una
lingua diversa, e ci si abbigliava diversamente”. Però “comunicavano”: una città
a più anime, non in guerra.
Oz resta uno che non si
è adattato alla nuova Gerusalemme, capitale d’Israele. La sua Gerusalemme è
un’altra. Richiamato nell’esercito nella guerra dei Sei Giorni, ha visto e poi
documentato molte cose che non gli sono piaciute. E tuttora non sa entrare nei
panni dei “coloni israeliani in Cisgiordania”.
Ma non dispera. Saprà
bene che il piatto rotto non si ricompone, ma non dispera di un compromesso –
sono gli anni di Netanyahu, che pure dovrebbero finire: “Il compromesso è considerato
una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il
compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la
parola compromesso è sinonimo di vita. Dove c’è vita ci sono compromessi”.
Una proposta di buona
volontà, debole. Anche se è vero: “Il contrario di compromesso non è integrità,
e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione, devozione. Il contrario di
compromesso è fanatismo, morte”.
Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, pp. 78 € 7
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