zeulig
Guerra
giusta –
La guerra perde nel suo svolgersi le sue motivazioni, non c’è giustificazione per
la guerra giusta, Simone Weil rileva dai primi svolgimenti della guerra civile
in Spagna: “Le necessità belliche fanno dimenticare molto presto le lo scopo
iniziale; esse costringono a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e
dì umanità che ha fatto intraprendere
quella stessa guerra”. E un anno dopo, nei “Nouveaux Cahiers” (“Non
ricominciamo la guerra di Troia”), elenca ironica gli “ideali” per i quali i
popoli europei si apprestavano a sterminarsi: “Nazione, sicurezza, capitalismo,
comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia”.
In precedenza, però, nelle “Riflessioni
sulla guerra”, 1933, - lontana da minacce di guerra, ma “dopo il trionfo di
Hitler in Germania” – ha teorizzato come giusta perfino la guerra preventiva: “La
pace sembra meno preziosa, dal momento che può comportare gli indicibili orrori
sotto il cui peso languono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento
tedeschi”. Contro il fascismo chiama alle armi “le nazioni ancora democratiche”.
Senza un problema di giusta causa: “Poco importa che si tratti di una guerra di
difesa o di una ‘guerra preventiva’; sarebbe persino meglio una guerra
preventiva”. Confermandosi col principio d’autorità: “Marx ed Engels non hanno
forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra da attaccare la Russia?”.
Non c’è una guerra “giusta” in astratto.
Specie se senza limiti.
Hölderlin – Gravosamente portato da Heidegger a
testimone della filosofia come poesia, il Dichter
des Dichters, nelle tante riflessioni
a lui dedicate (raccolte nel 1944, quando il “destino” era segnato ma non
ancora per la Germania, per certi tedeschi) e un po’ ovunque nella vasta opera.
Mentre la questione è semplice, si può dirla con Eco (“Assoluto e relativo”, in
“Costruire il nemico”): “Alcuni filosofi ingenui hanno avanzato la proposta che
solo i poeti sappiano dirci che cosa sia l’Essere o l’Assoluto, ma essi di fato
esprimono soltanto l’indefinito”.
Eco non porta a esempio
Hölderlin ma Mallarmé: “Erta la poetica di Mallarmé, che ha speso la vita per
cercare di esprimere una «spiegazione orfica della terra»”, senza riuscirvi.
Una scacco, della poesia inclusa, che Eco commenta beffardo: “Scacco che Dante
aveva dato per accettato fin dall’inizio, comprendendo che è orgoglio luciferino
pretendere di esprimere finitamente l’infinito, e aveva evitato lo scacco della
poesia proprio facendo poesia dello scacco, che non è poesia che vuole dire l’indicibile bensì poesia
dell’impossibilità di dirlo”.
Patria – “Il patriottismo è l’amore dei suoi, il nazionalismo è
l’odio degli altri”, Romain Gary, “ Educazione europea”, cap.31.
Sartre – Uno scrittore,
con curiosità filosofiche. Ha opera sparsa, rileggendo la quale gli scritti
teoretici sono parte minima, e comunque trattati in forma letteraria. Ha
immagine monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma.
Scriveva – la variegata dispersa produzione ha pure un senso, di teatro,
narrativa, filosofia, reportages, politica, vita sociale, memorialistica. Si
direbbe uno e centomila, come è anche giusto, suo diritto. Se non che si fatica
a non rimproverargli la coerenza, l’uniformità. Perché? Perché è professorale,
mentre era un adolescente attardato: femminista impenitente e pentito,
bugiardo, posatore (opportunista), filosofico e antifilosofico, sempre
tagliente (definitivo), e rideva anche spesso. Un adolescente, rimasto al
liceo, di quando lo frequentava, e di quando vi insegnava la filosofia. Uno che
gli piaceva andare a cento allora – “È la ragione che fa New York, città così
dura per tanti aspetti, malgrado tutto rassicurante: vi si vive a cento
all’ora” (“La regina Abemarle o l’ultimo turista”). Aperto a ogni esperienza, a
ogni vento del tempo: iniezioni di mescalina nel 1935, passività sotto
l’Occupazione, poi i caffè e le boîtes,
staliniano prima, maoista poi, il cinema, perfino i rotocalchi, e una
pubblicistica variata.
Storia – Non si sente
più molto bene. Espulsa dalle scuole e dalla ricerca, traballa, come un pugile
suonato anche se ancora in piedi nel ring. Per un forte verso anche alla fase
del rifiuto-rigetto. In America con le cancel
culture e gli inclusion standard, in Gran Bretagna con la Brexit – qui la rinuncia
alla storia si veste di ritorno a una storia non più vivente. La Francia non ne
produce più, morti Furet e Foucault. E anzi se ne disfa: le chiese che non “si”
incendiano, le svende ai fratelli in massoneria, per farci baretti e
pied-à-terre. Nel mentre che vuole chiudere e frontiere e si lamenta di essere
invasa dai mussulmani. È curioso come anche la Francia, che critica la rabbia iconoclasta
e obliteratoria americana, abbia voglia di privarsi della storia.
Francesco
De Gregori, il cantautore, storico
mancato ma di solida formazione, dice in
un sua composizione, “La storia”: “La storia siamo noi”, padri e figli, ricchi
e poveri, “nessuno si senta escluso”. La storiografia anche nelle forme del
secondo Novecento, che ne fu fertile, delle mentalità, egli esclusi, delle
minorane, delle microstorie, delle donne o di genere, trova questo compito
arduo. Ma ora si è perduta anche la storiografia tradizionale, politica e dei
grandi eventi, imperiale, economica, delle guerre, calde e fredde, delle personalità
“decisive”. “La storia dà i brividi”, canta ancora De Gregori, “perché nessuno
la può cambiare”. Ma conoscerla, anche mentre si fa? “La storia non si ferma”,
ancora De Gregori, la storiografia sì?
È
mobile: si racconta, si ricostruisce, si scrive, e quindi si riscrive.
Revisionismo suona male perché è accorgimento, arma di conflitti ideologici o
politici, ma è nei fatti, la storia non è immutabile. Nuovi documenti si
acquisiscono, nuovi metodi di ricerca, nuove sensibilità.
Vite – Una buona metà dei
film a Venezia erano di vita, propria e altrui, biografie e autobiografie,
anche di registi giovani e di poca o nessuna esperienza. In un solco già
scavato in Italia, da Nanni Moretti e, in parte, da Fellini. Ma ora senza
pretese d’autore, di costruzione comico-drammatica: come testimonianza. Vite
critiche o compiaciute non importa, ma sempre autoreferenti – così succede, in
fondo, anche nelle biografie: si racconta (romanza) una vita in cui ci si
rispecchia. Anche nella narrativa, il genere che va è la biografia, meglio se
propria – Carrère che è partito dalle vite degli altri (“L’avversario”,
Limonov, Philip Dick, “Vite che non sono la mia”), è approdato alla propria –
già in “Un romanzo russo”, in parte nel “Regno”, e ora dilaga in “Yoga”. A partire dal caso Annie Ernaux. Che però raccontava contestualizzando, mentre ora si racconta
introspettivamente.
A un secolo dalle “Confessioni” di Svevo (il genere certo è antico,
da Rousseau a sant’Agostino, ma era casi unici), una patristica rinforzata
dalla narrativa americana del secondo Novecento - fino a Auster - di cultura o
famiglia ebraica. Meglio se condita da uno storione familiare, ma anche
semplice. Anzi, ora più spesso come sagra nuda dell’autorappresentazione.
I social sono la forma
genera lizzata di questo bisogno di essere esibendosi invece che ritraendosi, seppure povera, minuscola, in fondo inerte pur
in mezzo alle frotte di follower –
che leggono distratti, come di riflessi allo specchio. E sono non un insulto al riserbo tradizionale, come sogliono
rappresentarsi, ma piccoli schermi, tenui, poco illuminati, di minute-minime
realtà, voglie, desideri, ansie, le più recenti “inadeguatezze”. Molti del
resto, che non filmano o non scrivono, pagano il cosiddetto psicoanalista per
farsi ascoltare.
L’autorappresentazione esprime un bisogno di essere, di essere
manifestandosi. Un tempo si sarebbe detto vanagloria, oggi si rappresenta sotto
il segno della sofferenza, la depressione, la disgrazia, il mal di vivere, la
crisi. Ma è anche un forma di isolamento – non salva la confessione dallo
strizzacervelli, interlocutore freddo. Di ritiro dal mondo? La massima socievolezza
come una forma di conventualizzazione, di ritiro dal mondo.
zeulig@antiit.eu
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