martedì 29 settembre 2020

Secondi pensieri - 430

zeulig


Guerra giusta – La guerra perde nel suo svolgersi le sue motivazioni, non c’è giustificazione per la guerra giusta, Simone Weil rileva dai primi svolgimenti della guerra civile in Spagna: “Le necessità belliche fanno dimenticare molto presto le lo scopo iniziale; esse costringono a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e dì umanità che ha fatto intraprendere  quella stessa guerra”. E un anno dopo, nei “Nouveaux Cahiers” (“Non ricominciamo la guerra di Troia”), elenca ironica gli “ideali” per i quali i popoli europei si apprestavano a sterminarsi: “Nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia”.
In precedenza, però, nelle “Riflessioni sulla guerra”, 1933, - lontana da minacce di guerra, ma “dopo il trionfo di Hitler in Germania” – ha teorizzato come giusta perfino la guerra preventiva: “La pace sembra meno preziosa, dal momento che può comportare gli indicibili orrori sotto il cui peso languono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento tedeschi”. Contro il fascismo chiama alle armi “le nazioni ancora democratiche”. Senza un problema di giusta causa: “Poco importa che si tratti di una guerra di difesa o di una ‘guerra preventiva’; sarebbe persino meglio una guerra preventiva”. Confermandosi col principio d’autorità: “Marx ed Engels non hanno forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra da attaccare la Russia?”.
Non c’è una guerra “giusta” in astratto. Specie se senza limiti.
 
HölderlinGravosamente portato da Heidegger a testimone della filosofia come poesia, il Dichter des Dichters, nelle tante riflessioni a lui dedicate (raccolte nel 1944, quando il “destino” era segnato ma non ancora per la Germania, per certi tedeschi) e un po’ ovunque nella vasta opera. Mentre la questione è semplice, si può dirla con Eco (“Assoluto e relativo”, in “Costruire il nemico”): “Alcuni filosofi ingenui hanno avanzato la proposta che solo i poeti sappiano dirci che cosa sia l’Essere o l’Assoluto, ma essi di fato esprimono soltanto l’indefinito”.
Eco non porta a esempio Hölderlin ma Mallarmé: “Erta la poetica di Mallarmé, che ha speso la vita per cercare di esprimere una «spiegazione orfica della terra»”, senza riuscirvi. Una scacco, della poesia inclusa, che Eco commenta beffardo: “Scacco che Dante aveva dato per accettato fin dall’inizio, comprendendo che è orgoglio luciferino pretendere di esprimere finitamente l’infinito, e aveva evitato lo scacco della poesia proprio facendo poesia dello scacco, che non è poesia che vuole  dire l’indicibile bensì poesia dell’impossibilità di dirlo”.
 
Patria – “Il patriottismo è l’amore dei suoi, il nazionalismo è l’odio degli altri”, Romain Gary, “ Educazione europea”, cap.31.
 
Sartre – Uno scrittore, con curiosità filosofiche. Ha opera sparsa, rileggendo la quale gli scritti teoretici sono parte minima, e comunque trattati in forma letteraria. Ha immagine monolitica, ma era di suo confuso e instabile, quasi di programma. Scriveva – la variegata dispersa produzione ha pure un senso, di teatro, narrativa, filosofia, reportages, politica, vita sociale, memorialistica. Si direbbe uno e centomila, come è anche giusto, suo diritto. Se non che si fatica a non rimproverargli la coerenza, l’uniformità. Perché? Perché è professorale, mentre era un adolescente attardato: femminista impenitente e pentito, bugiardo, posatore (opportunista), filosofico e antifilosofico, sempre tagliente (definitivo), e rideva anche spesso. Un adolescente, rimasto al liceo, di quando lo frequentava, e di quando vi insegnava la filosofia. Uno che gli piaceva andare a cento allora – “È la ragione che fa New York, città così dura per tanti aspetti, malgrado tutto rassicurante: vi si vive a cento all’ora” (“La regina Abemarle o l’ultimo turista”). Aperto a ogni esperienza, a ogni vento del tempo: iniezioni di mescalina nel 1935, passività sotto l’Occupazione, poi i caffè e le boîtes, staliniano prima, maoista poi, il cinema, perfino i rotocalchi, e una pubblicistica variata.
 
Storia – Non si sente più molto bene. Espulsa dalle scuole e dalla ricerca, traballa, come un pugile suonato anche se ancora in piedi nel ring. Per un forte verso anche alla fase del rifiuto-rigetto. In America con le cancel culture  e gli inclusion standard, in Gran Bretagna con la Brexit – qui la rinuncia alla storia si veste di ritorno a una storia non più vivente. La Francia non ne produce più, morti Furet e Foucault. E anzi se ne disfa: le chiese che non “si” incendiano, le svende ai fratelli in massoneria, per farci baretti e pied-à-terre. Nel mentre che vuole chiudere e frontiere e si lamenta di essere invasa dai mussulmani. È curioso come anche la Francia, che critica la rabbia iconoclasta e obliteratoria americana, abbia voglia di privarsi della storia.
 
Francesco De Gregori, il cantautore,  storico mancato ma di solida formazione,  dice in un sua composizione, “La storia”: “La storia siamo noi”, padri e figli, ricchi e poveri, “nessuno si senta escluso”. La storiografia anche nelle forme del secondo Novecento, che ne fu fertile, delle mentalità, egli esclusi, delle minorane, delle microstorie, delle donne o di genere, trova questo compito arduo. Ma ora si è perduta anche la storiografia tradizionale, politica e dei grandi eventi, imperiale, economica, delle guerre, calde e fredde, delle personalità “decisive”. “La storia dà i brividi”, canta ancora De Gregori, “perché nessuno la può cambiare”. Ma conoscerla, anche mentre si fa? “La storia non si ferma”, ancora De Gregori, la storiografia sì?
 
È mobile: si racconta, si ricostruisce, si scrive, e quindi si riscrive. Revisionismo suona male perché è accorgimento, arma di conflitti ideologici o politici, ma è nei fatti, la storia non è immutabile. Nuovi documenti si acquisiscono, nuovi metodi di ricerca, nuove sensibilità.
 
Vite
– Una buona metà dei film a Venezia erano di vita, propria e altrui, biografie e autobiografie, anche di registi giovani e di poca o nessuna esperienza. In un solco già scavato in Italia, da Nanni Moretti e, in parte, da Fellini. Ma ora senza pretese d’autore, di costruzione comico-drammatica: come testimonianza. Vite critiche o compiaciute non importa, ma sempre autoreferenti – così succede, in fondo, anche nelle biografie: si racconta (romanza) una vita in cui ci si rispecchia. Anche nella narrativa, il genere che va è la biografia, meglio se propria – Carrère che è partito dalle vite degli altri (“L’avversario”, Limonov, Philip Dick, “Vite che non sono la mia”), è approdato alla propria – già in “Un romanzo russo”, in parte nel “Regno”, e ora dilaga in “Yoga”. A partire dal caso Annie Ernaux. Che però raccontava contestualizzando, mentre ora si racconta introspettivamente.

A un secolo dalle “Confessioni” di Svevo (il genere certo è antico, da Rousseau a sant’Agostino, ma era casi unici), una patristica rinforzata dalla narrativa americana del secondo Novecento - fino a Auster - di cultura o famiglia ebraica. Meglio se condita da uno storione familiare, ma anche semplice. Anzi, ora più spesso come sagra nuda dell’autorappresentazione.
I social sono la forma genera lizzata di questo bisogno di essere esibendosi invece che ritraendosi,  seppure povera, minuscola, in fondo inerte pur in mezzo alle frotte di follower – che leggono distratti, come di riflessi allo specchio. E sono non un insulto al riserbo tradizionale, come sogliono rappresentarsi, ma piccoli schermi, tenui, poco illuminati, di minute-minime realtà, voglie, desideri, ansie, le più recenti “inadeguatezze”. Molti del resto, che non filmano o non scrivono, pagano il cosiddetto psicoanalista per farsi ascoltare.
L’autorappresentazione esprime un bisogno di essere, di essere manifestandosi. Un tempo si sarebbe detto vanagloria, oggi si rappresenta sotto il segno della sofferenza, la depressione, la disgrazia, il mal di vivere, la crisi. Ma è anche un forma di isolamento – non salva la confessione dallo strizzacervelli, interlocutore freddo. Di ritiro dal mondo? La massima socievolezza come una forma di conventualizzazione, di ritiro dal mondo.

zeulig@antiit.eu

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