Giuseppe Leuzzi
I riti immutabili, per i Morti, per
Capodanno, e più per Pasqua, l’Affruntata (san Giovannino che va in cerca della
Madonna dopo la Crocifissione e insieme vanno a scoprire il Cristo risorto),
così diffusi, amabili, sono ancora di tradizione, quindi benemeriti. Ma dicono
anche di un mondo, oltre che diverso, piacevolemente, immutabile. “Diversamente
immutabile”, se si può dire senza offendere.
Il
racconto “Gli occhiali” di Anna Maria Ortese “riassume in poche pagine la
vicenda di ogni Sud” (W.Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 490)? È il racconto di
una bambina felice nei miserabili bassi napoletani, finché il medico non ne
rileva la miopia e le fa mettere gli occhiali.
Il
Sud come una delusione? Occhiali a distanza, che mettono a fuoco. Illusioni che
svaniscono.
Gli Ottentotti a
Napoli
La
“porosità” di Napoli Walter Benjamin e Asja Lacjs fanno condizione
rivoluzionaria: “Costituire poroso il mondo – nel costante esercizio di compresenza
e permeazione degli elementi che il potere tiene separati – rappresenta un compito
rivoluzionario”. E Napoli, per questo, il caso “della città conoscibile per
eccellenza”. Ma di una “conoscibilità” che “è essa stessa una forma del
mistero, e il mistero una ribalta del conoscibile”. Capzioso ma lusinghiero.
Se non che
il richiamo è all’Africa: “Diffusa, porosa, disseminata è la vita privata. Ciò
che distingue Napoli dalle altre città è qualcosa di simile al kraal degli
Ottentotti: ogni comportamento e affare privato è inondato dalle correnti della
vita pubblica come da una marea. L’esistenza, che per i nordeuropei è la più
intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo, come nel kraal
degli Ottentotti”.
Il riferimento
al kraal dgli Ottentotti sarebbe stato ripreso da una prima edizione del “Viaggio
in Italia” di Goethe, là dove parla dei “lazzaroni”. Alla p. 246 del “Viaggio”
nella edizione delle “Opere sugli esemplari della sua epoca” (“Sämtliche Werke
nach Epocheseiens Schaffens”). Il riferimento non c’è nelle traduzioni italiane
del “Viaggio” di Goethe.
A Napoli Goethe fu due volte -
con l’intermezzo del viaggio famoso in Sicilia – e felice, nella primavera del
1787. Nel secondo soggiorno scrive soprattutto dei modi, gli usi e la situazione
sociale della popolazione. Loda per una volta in tutto il viaggio la pulizia delle
strade. E fa un esame comparato tra gli usi del Nord e quelli del Sud. Kraal,
lo “stazzu” degli animali, è termine afrikaans, olandese del Sud Africa (pare
derivato dal “corral” iberico), per indicare il villaggio bantù di capanne,
circondato da un muro di fango o da una palizzata, per delimitare e indicare la
comunità.
In viaggio con
lo stereotipo
La
letteratura di viaggio ingessa. Moltiplica i calchi, gli stereotipi, materiali
poveri, e tutti più o meno uguali. Come una galleria di gessi. Il primo – l’esploratore,
l’autore – traccia la linea e chi viene dopo segue la traccia: la ingrandisce,
la moltiplica, la imbellisce, la imbruttisce, ma con poche deviazioni. Pochi
hanno fatto eccezione alle relazioni di Colombo sulle Americhe – forse solo Sahagùn.
O sulle Indie al fantasmagorico – forse solo Matteo Ricci, un altro ecclesiastico.
Gli innumerevoli testi del Grand Tour magnificano l’Italia artistica nel mentre
che ne deplorano la sporcizia, la furberia, l’ingordigia. Anche dove non c’è –
non c’era – sporcizia, per esempio nel Veneto, né ingordigia di osti e
barrocciai, e magari invece l’arte non c’è , non eccezionale.
C’è
una letteratura di viaggio resistente, oltre che piacevole. Ma è d’invenzione,
un sottogenere della narrativa: Burton, Chatwin, Robert Byron, il Nobel
francese Le Clézio, ìl conte Potocki. Succede alla letteratura di viaggio come
nelle guide: si va per modelli, al gusto dell’epoca.
Particolarmente
indigente, la letteratura di viaggio italiana non ha lasciato tracce di dove
s’è avventurata: dell’Africa e del Nord Africa, della Libia. Chi volesse sapere
qualcosa della Libia, che non ha molto mutato nel secolo e mezzo dacché
l’Italia l’ha scoperta, non troverebbe nulla nei tantissimi, anche dettagliati,
testi italiani sulla Libia. O del resto dell’Africa. Negli Appelius e altri
colonialisti non solo, ma anche in Vittorio G. Rossi o in Bacchelli, l’autore che
divene famoso con “Mal d’Africa”, la vita romanzata del cartografo Gaetano
Casati – o anche negli anticolonialisti, prigionieri di guerra in Africa
Orientale, Berto, Flaiano, Tobino.
Un
po’ come l’Africa è il Sud. Che lo schema Grand Tour propone come l’orrido
della natura e il selvaggio degli uomini, e un po’ anche la violenza, di ladri,
briganti e tagliagole. Specie le tante dame che vi si sono dilettate. L’editore
Rubbettino ha una collana quasi sterminata di viaggiatori in Calabria. Che a
leggerli l’uno dopo l’altro sembrano fatti con lo stampo. O allora sono viaggiatori
ironici, che giocano con lo stereotipo –
per la Calabria Paul Louis Courier, Dumas, Edward Lear (che la collana
Rubbettino non riprende). La Calabria è
il massimo dell’orrido, benché la Sila e l’Aspromonte siano montagne dolci. E
il forestiero sia privilegiato, perfino troppo.
La
rovina del Sud
Il Sud era già spregevole al tempo di
Zola, con Zola stesso. Che nel 1864 scriveva a un corrispondente (“Mes Voyages”):
“Per me la rovina viene dal Mezzogiono, il popolo degenerato, tornato
all’infanzia, pigro, perdigiorno, mendico, magniloquente e vacuo”. E non si
indirizza al Midi francese ma al Mezzogiorno italiano, così proseguendo: “Sembra
che la rovina venga dall’Oriente. La punta dello stivale è stata invasa per prima,
dopo la Turchia asiatica, l’Egitto e la Grecia; e la cancrena della pigrizia ha
raggiunto Roma, l’Umbria, persino la Toscana; e noi stessi siamo minacciati,
dopo l’Italia. Le nazioni latine devono sparire?” Per consunzione?
Sicilia
Il
nome è camilleriano, Ferla, ma il posto è reale, e solido. Un paese di duemila abitanti
o pochi di più, sui monti Iblei, vicino Palazzolo Acreide, a 40 km. da
Siracusa, non di particolare charme,
ma uno dei “Borghi più belli d’Italia” per essere uno dei più green, se non il più green. Differenziata al 75 per cento,
compostaggio, fotovoltaico sugli edifici comunali, il tutto in soli dieci anni.
“La Repubblica”, che l’ha scoperto, lo dota anche di molti milioni, 40 di qua,
30 di là, che forse saranno decine o centinaia di migliaia, ma non importa:
quando si vuole si può, anche in Sicilia.
Molto
è per sentito dire. Incontrando una “nana” nel corridoio di palazzo Altieri a
Roma, dove va in visita da Carlo Levi, Sartre si chiede: “Che fa questa Siciliana
nei recessi di questo palazzo classico? (geografia poetica: quando vedo una donna
piccola di cinquant’anni in Italia, la prendo per una Siciliana)”.
C’è
la lista d’attesa a Palermo, città pur amministrata da Leoluca Orlando, un
sindaco che si vuole di sinistra, per un posto ai dormitori pubblici. Oltre
agli sbandati, e ai padri separati, molti sottoposti agli arresti domiciliari
che però non hanno casa.
Si
attraversava la Sicilia negli anni 1980, al tempo de “La Piovra”, “grande successo
mondiale”, in solitario, a piacimento, senza piani e senza prenotazioni.
Godendosi, sempre in solitario, Segesta, Piazza Armerina, Solunto, Eraclea
Minoa, e perfino Selinunte. Perché la mafia inorgoglisce, che pure impoverisce, invece di fare incazzare?
Vigàtesi,
con l’accento sdrucciolo, Camilleri dice gli abitanti di Vigata. Stravolgendo la
fonetica e la grammatica. La Sicilia si vuole eccezionale nel senso di folle.
“Il
Sud di Sciascia è irredimibile” – Walter Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 497.
leuzzi@antiit.eu
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