Sciascia,
curiosamente, benché grande lettore di Greene, non apprezzò “Il fattore umano”:
troppo triste. Come scrisse subito, in un
elzeviro poi raccolto in “Nero su nero”: “Questo libro è di una straziante opacità,
lo si attraversa come una vallata fitta di nebbia e piena di rovi. Non si può,
ecco, non si dovrebbe, scrivere dei libri così soffocanti”. L’amicizia sentiva
anche lui come oppressiva?
Stiamo
parlando di due autori totalmente diversi. Greene, benché coltivasse l’immagine
di scrittore dolente, straziato dalle umane debolezze, coltivava un lato
libertino, col quale era personalmente più in sintonia. “Il fattore umano” costruì come un omaggio alla slealtà. Di cui aveva in più occasioni tessuto l’elogio:
allo Hamburg Prize, che lo celebrava nel 1969, aveva sorpreso i giurati concionando
nel ringraziamento su “La virtù della slealtà”. Ma già nel 1948 aveva voluto épater le bourgeois, rispondendo a un’inchiesta
giornalistica “Why do I write”, perché scrivo: compito del narratore è “la
ricerca della verità tramite la slealtà”, ai suoi personaggi, alle sue storie. E
nel “Fattore umano” fa l’elogio del comunismo, di cui invece aveva semrpe
diffidato. Un “provocatore”. Sciascia
invece era e si voleva l’onest’uomo che sappiamo.
L’amicizia
è terreno scivoloso. Greene l’ha affrontato: nel 1986, a 82 anni e non in buona
salute, era andato a Mosca a porgere i suoi omaggi a Philby. L’anno dopo, per
l’articolo sul Csm che promuoveva Borsellino per equilibri politici sovvertendo
i criteri di esperienza e anzianità, Sciascia fu attaccato praticamente da
tutti - anche da Andrea Camilleri. Anche per il vecchio cenno al vecchio
mafioso di Racalmuto. L’amicizia, condannata in Italia nella polemica generale
Nord-Sud, stranamente è un valore assoluto in Inghilterra – nessuno criticò G. Greene in visita al traditore a Mosca.
In viaggio con
lo stereotipo – 2
In
visita a Napoli dopo Roma, tra maggio e giugno del 1839, nel suo unico viaggio
di vacanza, Sainte-Beuve scrisse dalla capitale del Regno al direttore della “Revue
des deux mondes” François Buloz: “Ho visto di Napoli e dintorni ciò che è più
citato: ci sono cose molto belle, e tuttavia si sono scritte molte parole su di
esse, di cui una metà almeno sarebbe da contestare. Ognuno vedendo negli oggetti le sue proprie
impressioni piuttosto che gli oggetti stessi, ha fatto una Napoli, un Capo Miseno,
un golfo di Baia di sua fantasia. Le bellezze più reali non sono state abbastanza
distinte dal resto - e qui come altrove ci si è seguiti, si è copiato, si è
fatta la truppa pecorona, ci si è tenuti al celebrato del celebre”.
Il
critico vedeva quello che aveva letto. Di cui era pure tentato di scrivere – ne
scrisse nelle lettere e in alcune poesie – ma non convinto, da port-royaliste quasi calvinista era a
Napoli e Roma nella tana del lupo, tra san Gennaro, statue discinte, e profusione di ori nella miseria. Ma da
viaggiatore per caso, viaggiatore-non-viaggiatore, vedeva i limiti delle
corrispondenze epidermiche, quando non sono veri e propri saggi, lunghi anche se
non profondi, di un ignoto che si pretende di padroneggiare, di costringere
anche in formule.
Lo
stesso delle bruttezze. Ognuno se ne fa la sua propria fantasia, direbbe Sainte-Beuve.
Ma per una volta generoso, invece che critico. Perché non è “ognuno” che se ne
fa un’idea, ma ognuno segue lìidea gia fatta, del momento, che tiene banco, che
fa testo.
Il
curioso è che Sainte-Beuve stesso non ha fatto che questo. Come tanti altri romantici,
aveva poetato sull’Italia senza saperne niente, eccetto qualche lettura. Nella raccolta
“Vita, poesie e pensieri di Joseph Delorme” che lo aveva reso subito celebre a
25 anni, aveva scritto una lunga poesia, intitolata “Italie”, con le “Georgiche”
di Virgilio in esergo, “O ubi campi”, nella quale aveva raccolto un buon numero
di luoghi comuni. In particolare si dice infelice mentre in Italia sarebbe stato
felice – senza esserci stato (ne diamo la traduzione in prosa): “E tuttavia la
felicità mi sarebbe stata facile! Perché la sorte non ha gettato i miei passi
sulle rive di Otranto, i piani di Sicilia, i boschetti di Pestum che io non
vedrò!”. Sugli imaginari “boschetti di Pestum” farà però ammenda: alla riedizione
del “Delorme” sotto il titolo “Poesie complete” aggiungerà una nota nel 1840,
dopo il viaggio, fingendosi redattore-editore del volume: “Non ci sono più
boschetti a Pestum, ci sono ammirevoli colline che si stagliano sul più bel cielo,
e dei rovi in basso, dei rettili, e le febbri per metà dell’anno”. André
Guyaux, che ha rifatto le bucce con humour all’Italia di Sainte-Beuve (“«Cette
rapide ébauche que j’emporte de l’Italie»: Sainte-Beuve à Rome et à Naples”), dice
che “vedeva Pestum in mezzo alla sua piana di Montrouge”, vicino Parigi, dove
aveva vissuto per un periodo.
Storia dei bravi
I
“bravi” dei “Promessi sposi c’erano già nel Cinquecento. Perseguiti come malfattori ma inutilmente. E
non solo a Milano e Lombardia. A Firenze si data al 1534, o 1535, un editto del
Consigio degli Otto, la magistratura cittadina, contro i “bravi” e chiunque portasse
armi. Francsco Berni li chiama anche “sbravi”, sotto il titolo però di “Sonetto
delli bravi” – “sbravi” per assonanza con “sgherri, masnadieri, sviati” (anche,
in altra rima, “Capitolo del debito”, con “sbricchi” e con “sbisai”, veneto per
“smargiasso”). Pietro Nelli poco dopo Berni, nel 1547, “Le satire alla
Carlona”, li apparenta ai “bulli”. A metà Cinquecento se ne poteva scrivere a
Venezia anonimo un “De l’età de bravi” - da cui un’estesa citazione si trova in
wikipedia, che li accomuna ai lenoni.
A
Milano le “grida” contro i bravi sono come dice Manzoni, numerose e inefficaci,
per tutto il secondo Cinquecento. Perché i bravi per lo più erano servitori di
casa, gente di mano dei signori e poteri, la cui livrea assicurava loro
l’impunità. Paolo Morigia nel 1567 ne denuncia la presenza massiccia in città.
L’anno precedente l’aveva denunciata in Lombarda: “In questi dì del 1566 nello
stato di Milano, et su le porte, et anco dentro la città, si scopersero una gran
quantità di assassini, che facevano grandissime insolenze, et oltragi; oltre gli
brutti ammazzamenti, di modo che nìuno era sicuro, né in villa, né anco nella
Città, o in casa propria, da questi scelerati”. Morigia, storico poligrafo, era
monaco dell’ordine dei Gesuati, dei quali fu per quattro volte superiore
generale.
Sparafucile
del “Rigoletto”, sarebbe l’ultimo bravo. Qualche anno prima, 1839, Mercadante
aveva dedicato al personaggio un’opera, “Il bravo”, ma era già fuori mercato.
La
prima “grida” milanese che parla di “bravi” è repertoriata al 23 aprile 1572. Poi
si susseguono ogni paio d’anni: ogni governatore spagnolo di Milano ne ha
prodotto una o più. Fino al 1650. Wikipedia, che le repertoria tutte, ne cita
ancora una del 1661, governatore non più spagnolo (napoletano, sposato con
gentildonne spagnole) Francesco Gaetani, e una del 1701, di Carlo Enrico di
Lorena – un francese Toson d’Oro spagnolo, avendo combattuto per la Sgna contro
la Francia.
Norme
contro i bravi – “bravi et vagabondi”, una mezza dozzina, furono emanate nel
Seicento anche a Venezia. “Il bravo”, un romanzo di James Fenimore Cooper (quello de “L’ultimo dei Mohicani) è ambientato a Venezia.
Non
c’è crimine imbattibile. La figura e la parola ricorrono già nella rima
“Maccheronea”, 1517, il latinorum di Teofilo Folengo: il tipo è perfettamente individuato,
nella tenuta, i modi, le pose, le furfanterie, ma dopo aver bollato la
categoria di vigliacchi, sempre a tintinnare la spada al fianco, salvo mostrare
“coraggiosamente i calcagni” quando è il momento di sguainarla non a tradimento.
Si direbbe questi primissimi bravi i mafiosi di oggi.
“Bravo”
è anche il titolo di un dipinto di Tiziano, del 1520 circa – un dipinto a lungo
attribuito a Giorgione: il bravo è rappresentato di spalle in ombra, mentre
aggredisce a tradimento, di spalle, un giovane, che si volta dubitativo e
impaurito.
Fra
le tante “grida” contro i bravi di Milano, anche antecedenti a quelle dei
“Promessi sposi”, sul finire del Cinquecento, dei “bravi” si metteva in rialto
che giravano con i capelli sulla fronte – lo “zuffo”, il ciuffo. Che suona come il “muffo”,
il fazzoletto da collo colorato, che distingueva i mafiosi della “onorata società”
Melchiorre
Gioia nel primo Ottocento ne ha descritto una lunga serie di delitti, sempre
garantiti in un modo nell’altro
dall’impunità – “Sul comercio dei commestibili e caro prezzo del vitto”, 1830. .
Di
fatto erano polizie private, con livrea del padrone, che “bastava”, dice la
Treccani, “a garantir loro l’impunità”. Le mafie erano allora nobiliari,
“sgherri al soldo dei signori, guardie del corpo es esecutori insieme di ordini
iniqui e di delitti”. Furono un fenomeno massiccio, nelle città di corte, per
un secolo abbondante, tra Cinque e Seicento. In Lombardia se ne sono contati, tra
l’anno della peste, il 1630, e metà Seicento, fra 30 e 60 mila. Poi i bravi scomparvero:
urbanesimo e borghesia presero il sopravvento, anche presso la nobiltà già debilitata,
e le leggi ebbero il sopravento.
Milano
“Dissacrare
il lealismo asburgico è stato un abuso dei risorgimentisti italiani”, gli
stessi che “non hanno reso gli italiani né più civili né migliori”, notava
Giacomo Devoto nel 1972 a proposito dela “dissacrazione” allora in atto di
Manzoni, tra l’altro per il “moderatismo cattolico”. Il linguista, “né fiorentino
né milanese”, si professa “lontano dalla definizione dissacrante del mondo sia
pure meschino dei moderati lombardi”, di “onestà forse gretta ma sostanziale”.
È
un po’ lo sguardo che vi aveva portato il milanese Gadda nei racconti milanesi.
Ha
difficoltà a concepire il passato remoto secondo i linguisti. Il milanese come
il lombardo -l’italiano in genere del Nord. Come forma verbale e mentale.
Cartesio procedeva mascherato. Milano non si maschera ma si volta indietro –
dimentica. Sarà questa la forza del fare.
Tutte
le insufficienze sanitarie di quest’anno, dai contagi della movida ai contagi
in ospadale e nelle residenze per anziani, i focolai di decine di migliaia di
contagiati e migliaia di morti, e ora il vaccino antinfluenzale che non c’è, vengono
addossate alla giunta di governo in Lombardia. Che però è leghista, lombarda. A
capo di un’amministrazione che c’era anche prima e ci sarà dopo. E non a una
sanità che è stata organizzata solo per il profitto.
La
Regione Lombardia generosa si è offerta – si era offerta prima della nuova
pandemia - di accogliere i contagiati dal coronavirus di altre regioni. Per far
rifiorire il business sanità.
Una
“falsa città” nelle note di viaggio di Sartre, 1936, che entrando a Napoli si
domanda deluso: “Sono a Napoli? Napoli esiste?”, e poi prosegue, prima di
“scoprire” la città: “Ho conosciuto delle città – Milano, per esempio - delle
false città, che si disgregano quando vi si entra”. In un “saggio” pubblicato
dal “Mattino” di Napoli nel 1982 e ripreso da Ramondino-Müller, “Dadapolis”.
Il
limegno Manuel Scorza invece, sempre sul “Mattino, nel 1984, la dice lontana,
secondo il cliché: “«Lima è più
vicina a Londra che al Perù», diceva Humboldt. Milano è più vicina a
Copenhagen, a Parigi, a Monaco che a Napoli”.
Ma
Copenhagen ha il mare.
Fa un po’ pena
il giudice Davigo, di Candia Lomellina, ex Robespierre di Mani Pulite, che il Csm oggi ha dichiarato decaduto. Brigava per restarci ancora un anno, anche se ha settant’anni, è fuori ruolo, e
fuori anche dall’Associazione Magistrati che lo aveva portato al Csm - rappresentava se stesso, come si suol dire. Ma, da
buon lombardo, difendeva gli emolumenti suppletivi e la scorta, e quindi che
obiettare? È la forza dei lombardi, difendere l’interesse, anche minimo.
Fra
le tante “immunodeficienze” della Lombardia nella peste cinese c’è quella dell’acquisto
dei vaccini antinfluenzali. Che a marzo erano disponibili a 5,90 euro e non
furono acquistati perché “troppo cari”. Poi, invece, sono stati acquistati a
prezzi tra 14,40 e 26 euro. Ora, siccome essere lombardo significa sapersi fare
i conti, cos’è questa imprevidenza se non corruttela? Ma non ditelo a Milano, a
Milano non c’è corruzione, la corruzione è a Roma – quando non è della ‘ndrangheta.
leuzzi@antiit.eu
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