Si può tradire. Un paradosso,
utile ad alimentare la suspense. Ma anche una verità, maturata da Graham Greene
in età, a 74 anni, dopo un paio di abbozzi in cui non trovava il filo, o la capacità di persuasione. È il romanzo anche della vita dura da spia, specie se fa il doppio
gioco – il sospetto pesa sempre. Una spy
story, dichiaratamente a ogni risvolto della storia, anti James Bond,
la vita della spia non è fiammeggiante, è grigia e grama – al punto che
Sciascia, lettore avido di Greene, la trova di “straziante opacità”, spiega
nella postfazione Domenico Scarpa, l’artefice del revival dello scrittore
britannico (scrivendone sul “Corriere della sera” del 6 settembre 1978, testo
poi ripreso in “Nero su nero”). Ma soprattutto, bisogna aggiungere, un tributo
al comunismo, nel 1977, in pieno breznevismo, pretendendo che il comunismo è
altro.
Diciassette anni dopo
l’apparizione di Smiley, la spia triste e rassegnata di Le Carré, Graham Greene
torna ai “divertimenti”, come definiva i romanzi disimpegnati, entertainment, con una spia triste ma
non rassegnata. Questo propriamente
un divertimento non è: è, nientedimeno, un omaggio a Kim Philby, uno dei capi
dei servizi segreti britannici che faceva il doppio gioco per i russi, e nel
1963 era sfuggito all’arresto fuggendo a Mosca, dove era riapparso in pubblico
come colonnello del Kgb. Ma fila rapido lo stesso, seppure un po’ prolisso, con
la polemica anti-americana e tutto quanto fa british, i club, le cacce, i tweed, le donne asessuate: la politica
non pesa.
Philby, spia di professione, era
stato capo di Greene nella breve stagione in cui lo scrittore operò, durante la
guerra, come agente dei servizi segreti britannici in Africa. Era più giovane di
Greene, di quasi dieci anni, e certamente molto spregiudicato. Ma Greene scrive
nel 1977 questo “Fattore umano” come un risarcimento: si può tradire per il
comunismo, che naturalmente non è quello di Budapest e Praga eccetera – qui nelle vesti dei comunisti sudafricani, che soli sanno combattere l’apartheid. Un tributo:
a Philby manda a visionare le bozze. E qualche anno dopo, a 84 anni, si reca a
Mosca a fargli visita, pubblicizzandola.
In vena di trasgressioni, un seduttore
che non divorziò mai dalla moglie, Greene aveva anche teorizzato la slealtà, in
un discorso a Amburgo, dove veniva premiato, che Scarpa riprende nella
postfazione, “La virtù della slealtà”, nel 1969, quando era già impegnato in
questo romanzo di Philby, che poi per un periodo abbandonò. Ma già nel 1948,
spiega ancora Scarpa, partecipando all’inchiesta giornalistica “Why do I write?”,
perché scrivo, aveva sostenuto – nella sintesi di Scarpa – “la ricerca della
verità tramite la slealtà”.
Graham Greene, Il fattore umano, Sellerio, pp. 460 €
15
Diciassette anni dopo l’apparizione di Smiley, la spia triste e rassegnata di Le Carré, Graham Greene torna ai “divertimenti”, come definiva i romanzi disimpegnati, entertainment, con una spia triste ma non rassegnata. Questo propriamente un divertimento non è: è, nientedimeno, un omaggio a Kim Philby, uno dei capi dei servizi segreti britannici che faceva il doppio gioco per i russi, e nel 1963 era sfuggito all’arresto fuggendo a Mosca, dove era riapparso in pubblico come colonnello del Kgb. Ma fila rapido lo stesso, seppure un po’ prolisso, con la polemica anti-americana e tutto quanto fa british, i club, le cacce, i tweed, le donne asessuate: la politica non pesa.
Philby, spia di professione, era stato capo di Greene nella breve stagione in cui lo scrittore operò, durante la guerra, come agente dei servizi segreti britannici in Africa. Era più giovane di Greene, di quasi dieci anni, e certamente molto spregiudicato. Ma Greene scrive nel 1977 questo “Fattore umano” come un risarcimento: si può tradire per il comunismo, che naturalmente non è quello di Budapest e Praga eccetera – qui nelle vesti dei comunisti sudafricani, che soli sanno combattere l’apartheid. Un tributo: a Philby manda a visionare le bozze. E qualche anno dopo, a 84 anni, si reca a Mosca a fargli visita, pubblicizzandola.
In vena di trasgressioni, un seduttore che non divorziò mai dalla moglie, Greene aveva anche teorizzato la slealtà, in un discorso a Amburgo, dove veniva premiato, che Scarpa riprende nella postfazione, “La virtù della slealtà”, nel 1969, quando era già impegnato in questo romanzo di Philby, che poi per un periodo abbandonò. Ma già nel 1948, spiega ancora Scarpa, partecipando all’inchiesta giornalistica “Why do I write?”, perché scrivo, aveva sostenuto – nella sintesi di Scarpa – “la ricerca della verità tramite la slealtà”.
Graham Greene, Il fattore umano, Sellerio, pp. 460 € 15
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