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Il paradiso laico
L’aldilà laico non può essere, come per i
credenti, tra paradiso e inferno. Non c’è colpa individuale ma concorso di
cause. Né colpa totale e definitiva, senza una ragione e una possibilità di
appello. È dunque in un’area indistinta, che non può peraltro trovarsi, per una
coscienza materialista, in un altro mondo che questo. L’aldilà laico è
piuttosto un aldiquà.
S’immagini dunque un’area compresa tra Piazza Colonna e Campo Marzio, a Roma
naturalmente, il Pantheon e Piazza Navona. Un’area non grande, e priva delle
suggestioni dell’urbanistica barocca che la città domina, con spazi sventrati e
monumenti alla Boullée. Senza alberi, gli ultimi nel chiostro del vicolo
Valdina essendo stati sacrificati alla ristrutturazione, l’architettura non ha
posto per le foglie. Tristanzuola ultimamente, benché popolata di strafiche
diurne e notturne, a caccia di uomini speciali in questa città di uomini,
ultracinquantenni, rotondi, profumati alla lavanda, gli onorevoli, l’etica
esimendole dopo Mani Pulite dal fare quelle cose lì per le quali erano
disponibili, che dunque posano liberamente discinte e quasi sfatte come al
risveglio, mentre gli onorevoli fingono di avere famiglia, anche se in genere
al paese ce l’hanno.
Ma niente a Roma è senza suggestioni, l’etica inclusa, che è l’unico aldilà dei
laici, specie nelle ore, tra le due e le cinque del mattino, in cui questo loro
mondo si popola. Dopo l’ora di Mefistofele dunque, che sarà pure venuto a
proporre il patto, ma non ci ha trovato nessuno. Sono ore di silenzio e grandi
spazi, che si popolano per modo di dire, i laici saranno tre o quattro,
sarebbero ormai da zoo, sdegnosi peraltro, e riservati anche tra di loro.
S’immagini dunque Spadolini, non più astretto alla dispepsia della pasta e
fagioli della Colonna Antonina, sotto l’ultima sede del “Mondo” di Pannunzio, e
anzi liberato dagli obblighi di continenza, seguito da Cosimo muto col registratore, e da Ugo e Stefano che ne accettano magri le folli collere, più Sartori, Scalfari, Salvemini, e un paio di altri anonimi, non cominciando per esse. L’iniziale è privilegiata
in quanto sa di sapiente e sulfureo, se non di satanico. Di sdegno, quale i
tempi esigono – o tempora o mores.
Anche se, qualcuno, nostalgico nell’intimo del paradiso vero delle urì che ha disdetto.
Non sono i soli. Altri gruppi popolano l’aldilà laico, benché sempre
scarsamente, composti da personalità estrose e non inquiete, ognuno dei quali
celebra per sé, in gruppo e individualmente, proprie specialissime virtù,
Gobetti, Longanesi, Montanelli, Ottone, Pannunzio, le lettere centrali
dell’alfabeto. In ottime stoffe inglesi, con tagli da sartoria, dritti su
solide Oxford brownies. Celebrano discreti ma soddisfatti, come il
libertinismo comodo del loro giornalismo. È stato detto (Giorgio Manganelli,
“Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti”) che è difficile comunicare
con i morti, e invece no. Non lo è con quelli che si è conosciuti da vivi, e
non naturalmente con gli sconosciuti, da Omero in qua – può essere vero con i vivi
conosciuti che invece erano morti.
Un tempio si riserva agli ospiti vaghi della fraternità cosmopolita.
Vengono fuori dai palazzi limitrofi, Farnese, Massimo, la terrazza del Valle,
uno alla volta, quasi rappresentassero in modesta solennità le rispettive
nazioni. La Francia si traveste da sirena, e musiche flautate sembrano
aleggiarle sul capo. L’America, anche se femmina, in vesti da vaccaro texano
benché rifinito a Savile Road, amichevole ma indifferente, distratta dal
governo del mondo, totalitario benché laico e democratico – è il problema della
quadratura del cerchio, problema filosofico benché politico. Incalcolabili
invece si aggirano a frotte, da ogni dove provenienti, il Chianti, il Salento,
i più vecchi dalla Riviera, i famosi liberali inglesi, che spesso sono
scozzesi, molti in età, inossidabili, indistruttibili, protetti forse dal vino,
per il quale soltanto apprezzano l’Italia, all’ombra del “Guardian”,
dell’“Economist” e del “Financial Times” - qualcuno s’indovina a fare l’amore
col lampione, nel cono di luce: se lo abbraccia, e lo riabbraccia.
Ma è un mondo ultimamente animato, se non preoccupato, per due arrivi
incombenti. Uno è Berlusconi. Che è una lettera nuova, è milanese, si vanta
quindi dei soldi fatti, dice le barzellette, ed è pieno di figli, ma si vuole
liberale, e possiede quasi tutte le case editrici, quelle che più vendono.
L’altro è il papa in persona, per la nuova teologia, che, dopo il pastore
Bonhoeffer, vuole prendersi con Dio pure il mondo. È l’ultima novità che le
buonanime – anche se ben viventi, beninteso – avrebbero mai immaginato. Tanto
più che il papa Ratzinger Benedetto è tedesco, e uno che per venticinque anni
ha diretto il Sant’Uffizio, il tribunale di Galileo, Giordano Bruno e gli altri
spiriti liberi, alcuni dei quali ha bruciato – o è già il suo successore Francesco,
il ragazzo argentino che fu presto orfano di Evita?
L’idea di alzare un muro, in questa città notturna, com’è la moda dopo Israele
al tempo di Sharon, è stata rigettata perché ricorda il ghetto, anatema per i
laici, e l’aborrito paradiso cristiano con le chiavi di san Pietro, che poi è
il papa. Anche la cooptazione – entra chi viene chiamato – è
stata rigettata, in linea con l’aborrita Bossi-Fini. Si vivacchia per questo
nell’inquietudine, scongiurando nell’intimo l’inevitabile: augurando lunga vita
cioè a Berlusconi nell’etere e a Ratzinger nel Vaticano, o a Bergoglio, se non
l’immortalità. E nella costernazione, i nemici aborriti sapendo, non sapendolo,
anch’essi prossimi al crollo, boccheggianti per interna implosione. Tutto è
polvere, nel paradiso laico.
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